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Percorrere “La via dei maestri del té”: fascino e segreti di questa antica bevanda

15 Febbraio 2019
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di Marco Sciarrini

Proseguono gli appuntamenti organizzati dal Comando Unità Forestali Ambientali Agroalimentari Carabinieri presso la sala Serviana di Roma con “I Martedì della Natura, conversazioni sotto le mura”.

Questa volta la presentazione del libro “La via dei maestri del tè”, scritto da Luciano Zambianchi, un testo contenente le informazioni di base per iniziare a percorrere la “via” per diventare maestri del tè, scoprendo come poter affinare le capacità percettive fino a trovare il proprio stile. L’interessante volume, ha fornito ai presenti informazioni tecniche, legate alla commercializzazione, ma anche storie nazionali ed esperienze personali, che potranno essere uno spunto per tutti quelli che amano farsi una coccola, dedicando del tempo a se stessi, preparando una tazza di tè. L’autore sostiene che dalla tradizione del tè possiamo imparare ad avere un maggior rispetto per noi stessi e anche per i piccoli gesti quotidiani, che da abitudinari potranno addirittura trasformarsi e affinarsi in espressione di una personale sensibilità.


(Luciano Zambianchi)

Per i “maestri” è importante entrare in rapporto con i propri clienti e aggiungere piacere e valore culturale a chi già ama il tè. Il libro offre moltissime informazioni, ma lascia al lettore lo spazio necessario per trovare, seguendo le indicazioni presenti, la sua “via”. Sarà la pratica e il desiderio personale a spingere ciascuno ad approfondire, scoprendo le innumerevoli differenze possibili e imparando a trasmetterle, promuovendo nuovi gusti, magari scoperti tra i quasi mille tè verdi cinesi, o tra i nuovi riti africani o russi. Le buone maniere ed il buon gusto sono la premessa necessaria, assieme all’ambiente confortevole, sicuro e rilassato, necessari per entrare in rapporto con la bevanda. Di fatto quella che si chiede ad un Maestro del tè è una rappresentazione, in cui l’attore recita senza copione, in cui i movimenti e i toni contano quanto i sapori, gli aromi e i vapori. Importante è la capacità di percepire le differenze, tra produzioni di differenti “giardini del tè” (di montagna o di pianura) o tra differenti annate, che si acquisisce con l’esercizio. Quasi tutti sanno, prosegue l’autore, che le esperienze olfattive e gustative sono tra le più persistenti, quelle che più facilmente si associano ad una emozione, non molti sono addestrati a classificarle, ad associare un attributo all’esperienza. 

Probabilmente fu proprio nei giardini delle famiglie dei nobili che in Cina furono coltivate le prime piante, e sempre in Cina se ne scoprirono le qualità e se ne affinò l’uso con il “Canone del tè” (Ottavo secolo), in Giappone arrivò uno o due secoli dopo. Anche il nome “Cha” nacque in Cina nel nono secolo per differenziare gli infusi di erbe amare dall’infuso di foglie, che è all’origine del tè come lo intendiamo ora. Si può senz’altro dire che la nascita del nome è stata anche la nascita del tè. In India, invece, i “giardini del tè” nacquero e si svilupparono grazie alla dominazione inglese (a partire dai primi anni del 1800), furono infatti gli Inglesi a disciplinarne le coltivazioni che, nonostante e indipendentemente dalle loro estensioni, erano chiamate “garden”, ad esempio una piantagione di 600 ettari veniva divisa in tre parti collegate tra loro con le strade di servizio e ogni parte era a sua volta divisa in dieci giardini da 20 ettari ciascuno. Le piantagioni erano ombreggiate da piante di alto fusto che oltre all’ombra avevano anche funzioni biochimiche e meccaniche con le loro radici. Il tè come pianta selvatica anticamente era presente in poche parti del mondo, in una vasta zona dell’Asia, in alcune zone dell’America del sud e in parte dell’Africa. La zona per noi più interessante è la parte asiatica dove è iniziata la coltivazione, più precisamente quell’area a forma di grande ventaglio che va dalla Cina meridionale (dove lo Yangtze Kiang, scendendo dall’altopiano del Tibet, si dirige a sud e poi a est) agli altipiani indiani (dalla valle del Brahmaputra a quella dell’Assam) e infine agli altipiani del Myanmar e del Siam. Oggi però le coltivazioni si trovano in zone molto diverse da quelle di origine, dalla Georgia all’Argentina, ma c’è addirittura un amatore (Guido Cattolica) che ha realizzato un giardino italiano (piantagione) in Toscana, vicino Lucca nella tenuta di famiglia, e produce un tè pregiatissimo, lavorato con un’accuratezza maniacale, valutato alla borsa del tè 600 euro€ al chilo (ma ogni anno riesce a produrne meno di 20 chili). 

Nella raccolta e lavorazione del tè, racconta l’autore, ci sono aspetti che si sono affinati in oltre un millennio di sperimentazioni, negli ultimi due secoli, dopo la rivoluzione industriale, i tentativi di innovazione hanno riguardato principalmente la sperimentazione di tecniche e apparati per la meccanizzazione. Nonostante i tentativi siano stati molti, non hanno dato risultati positivi, così i grandi giardini ancora usano procedimenti e tecniche vecchi di secoli. Si deve considerare che la manodopera ha sempre costituito la parte principale dei costi per le aziende produttrici, questo valeva anche nel periodo in cui venivano utilizzati, per la coltivazione, schiavi o manodopera forzata una specie di servizio obbligatorio, diffuso specialmente in Cina a favore dell’Imperatore. Tentativi di abbattere la manodopera nella produzione del tè non sono certo iniziati nel nostro secolo: c’è una antica leggenda che narra che nella Cina di mille anni fa esisteva un tè particolare, proveniente da piante che crescevano allo stato selvatico solo su inaccessibili montagne, alla periferia meridionale dell’impero, questo tè, che era riservato ai più importanti dignitari di corte, veniva raccolto da scimmie addestrate, le uniche in grado di raggiungere quei luoghi impervi. Naturalmente è solo una leggenda. Nella raccolta è previsto che vengano prese solo le ultime foglioline e i teneri germogli degli arbusti, scegliere quali foglie raccogliere non è un fatto da lasciare a una macchina o a una scimmia.

Molto interessanti sono state le differenziazioni sulle varie cerimonie del tè, come quella cinese. In Cina il consumo del tè sia antichissimo, anche se la sua origine come moderno infuso è più recente ed è collegata alla nascita del nome “Cha” nel settimo secolo. Precedentemente gli infusi amari di erbe o foglie (usati come presidi terapeutici) non erano distinti tra loro. Nel 758 il monaco Lu Yu scrisse il “Canone del tè”, sicuramente la prima monografia sul tè, ancora ristampata per il piacere degli amatori. Sempre per il piacere degli amatori nell’ultimo mezzo secolo in Cina si sono riscoperti gli usi tradizionali che grazie all’aumentato benessere si sono diffusi, passando dalle élite culturali a larghe fasce della popolazione. L’autore ha parlato di cerimonie perché anche in Cina, come in ogni altra parte del mondo, un conto è la quotidianità familiare, un altro è l’uso cerimonioso del tè per esaltare la bellezza o l’importanza di particolari momenti. In casa, per il consumo quotidiano, i cinesi mettono le foglie di tè, prevalentemente verde o oolong, in una pentola con l’acqua calda, dopo qualche minuto con un mestolo raccolgono l’infuso che spesso servono ai familiari in bicchieri trasparenti (le foglie possono essere usate più volte). 

Nelle occasioni importanti, se si vuole mostrare rispetto o onorare un ospite, chiedere scusa per qualche cosa, nelle feste familiari, nei matrimoni ecc., si tirano fuori gli strumenti tradizionali, quasi sempre di origine moderna, e si rappresenta la propria capacità di realizzare un tè perfetto. In realtà quello che viene ammirato dai cinesi in questa cerimonia è la destrezza di chi la esegue, che viene letta in base all’armonia che riesce a trasmettere. Armonia è la parola chiave per leggere la qualità della preparazione. In Cina, negli anni '70, già all’asilo i bambini cinesi imparavano i trucchi di magia o gli esercizi fisici che poi erano i più apprezzati e applauditi durante gli spettacoli dell’Opera di Pechino. Gli spettatori conoscevano perfettamente i trucchi e gli esercizi proposti, ma applaudivano l’aspetto estetico, la destrezza di esecuzione. Allo stesso modo nella cerimonia cinese del tè si esalta una “cerimoniosa armonia”. 

Il tè arriva e si diffonde in Giappone a partire dal nono secolo, e proprio allora nasce l’esibizione giapponese del tè. Si è parlato di esibizione perché nel mondo giapponese pre-medioevale, mentre i capi delle famiglie nobili, guerreggiando, facevano di tutto per indebolire il potere centrale che aveva appena spostato la capitale a Kyoto, le padrone di casa gareggiavano tra loro, ma con il tè invece che con le armi. Solo nel Sedicesimo secolo il monaco buddista Sen no Rikyū codificò la cerimonia, che divenne tutt’uno con il pensiero e l’azione zen. Anche se sono passati pochi secoli, siamo lontani anni luce dal buddismo giapponese di “Alla Ricerca del Toro”. Il maestro Sen no Rikyū indica semplicemente la via per fondersi con il tutto, trasformando una specie di competizione in un’esperienza socio spirituale. È la “perfezione”, che secondo i maestri si ottiene con l’esercizio e la concentrazione, ma anche estraniandosi con la meditazione, ripetendo gesti ritenuti essenziali. In effetti ogni passaggio di questa cerimonia è stato affinato e, secolo dopo secolo, è arrivato alla perfezione, con effetti sia spirituali che corporali, addirittura terapeutici. Una équipe di ricercatori ha scoperto che, durante la cerimonia giapponese del tè, nelle persone diabetiche la glicemia scende bruscamente. Nella cerimonia giapponese il numero dei passaggi è aumentato rispetto a quella cinese, e in qualche  modo anche il destinatario della cerimonia ne fa parte, chi poi dovrà bere il tè è coinvolto, al punto che “tutto diventa uno”. La cerimonia cambia a seconda degli ospiti! Non volendo banalizzare quello che per noi occidentali spesso si esprime con ossimori, come ad esempio “la complicata semplicità”. Naturalmente la situazione odierna nel Giappone moderno vede l’uso smodato a colazione di tè oolong in bustine filtro. Una cosa è la spiritualità, un’altra è la realtà quotidiana.

Proseguendo con gli  affascinanti racconti dell’autore in Russia nelle sale da tè dei grandi alberghi e dei circoli privati, nei salotti esclusivi, le signore della nuova oligarchia si incontrano intorno a samovar d’argento e a vassoi pieni di pasticcini finissimi e di ghiottonerie, per gustare tè nero cinese. Nelle case, “normali” samovar elettrici scaldano l’acqua solo quando ci sono gli ospiti, di solito un pentolino è sufficiente per preparare l’acqua bollente che poi viene versata sulle foglie di tè nero, spesso di origine Georgiana. La nuova borghesia russa usa il tè come momento aggregante in cui gustare i manicaretti preparati dalla padrona di casa. Per questo sono tornati di moda i samovar di porcellana e i servizi da tè da esibire e da trasmettere agli eredi, comunque più che a gustare un buon tè si punta ad ottenere una socializzazione, quasi sempre aggiungendo altri alimenti, dolci o salati. 

La via dei maestri del tè
Luciano Zambianchi
Casa editrice “Il Mio Libro”
124 pagine con 32 foto nel testo;
formato 14,5×22;
Venduto su Amazon e da Feltrinelli;
prezzo 22 €.