La filiera olivicola non resta indenne dalla crisi. Il responsabile del settore per l’assessorato regionale: “Marchio unico? Occorre fare presto”
“Doc Sicilia”
anche per l’olio?
Oltre 150 mila ettari coltivati a uliveto di cui 20 mila destinati alla produzione di olive, circa 50 mila le tonnellate di olio extravergine di oliva e 250 mila i quintali di olive da mensa. Sono questi i numeri della filiera olivicola in Sicilia che non resta indenne dalla crisi registrando, nell’ultima campagna un prezzo inferiore a 3 euro per l’olio extravergine di oliva venduto al frantoio
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Ma come si è arrivati a questo? Quale è stato il percorso dell’olivicoltura dell’Isola? “Veniamo da un decennio di continuo miglioramento dovuto all’applicazione di tecnica e ricerca in campagna, in frantoio, ma anche nella gestione della conservazione e della commercializzazione, che si può notare ad esempio nelle evoluzioni del packaging”, spiega Leonardo Catagnano, responsabile della rete olivicoltura da olio per l’assessorato all’agricoltura della Regione siciliana. Ma se da un lato è stato semplice e rapido intervenire sul miglioramento della qualità, dall’altro il processo è stato, ed è tuttora molto lento per l’ingresso in determinati mercati. “Purtroppo però, come per la filiera vitivinicola siciliana, uno dei limiti dell’olivicoltura è di carattere strutturale: le nostre aziende sono molto piccole e ciò si traduce in costi di produzione elevatissimi, che raramente possono essere compensati dal prezzo allo scaffale, e in quantità di prodotto insufficienti ad aggredire i mercati più interessanti – prosegue Catagnano – solo che, mentre per il vino c’è una tradizione più lunga, nell’olio si parla di qualità solo da quindici anni”. Una qualità che, secondo una recente indagine Unilever, non sempre viene riconosciuta dai consumatori. E le norme sull’etichettatura non aiutano. “Agli oli extravergini di oliva, ottenuti tramite processi meccanici, a volte vengono preferiti i più economici oli di oliva, che però vengono estratti chimicamente e poi rettificati con percentuali non precisate di oli vergini, subendo ben sette trattamenti prima di arrivare alla bottiglia”, puntualizza Catagnano. Inoltre, nel mercato spesso le denominazioni di origine e i prodotti senza marchio hanno prezzi molto simili. Allora che fare?
“Proprio prendendo esempio dal grande lavoro di zonazione che è stato fatto per il rilancio dei vitigni autoctoni, si potrebbe, per l’olivicoltura, realizzare uno studio del territorio che ci permetta di individuare le aree più vocate. In queste sarebbe opportuno continuare la ricerca dell’eccellenza, mantenendo se è il caso anche le ridotte dimensioni aziendali perché inversamente proporzionali alla qualità degli oli ottenuti. Nelle aree meno vocate si potrebbe invece puntare sulle quantità, introducendo metodi di coltivazione intensivi che permettano di ridurre i costi di produzione e ipotizzando un’ottimizzazione della fase di lavorazione delle olive”. E per migliorare l’immagine dell’olio siciliano nel mondo, un altro elemento mutuato dal mondo del vino potrebbe essere l’introduzione di un unico marchio a denominazione di origine che consenta di mettere in etichetta la parola “Sicilia”, oggi non permessa dalla normativa europea. “Le attuali sei Dop, otto con quelle in protezione transitoria, riprendono territori poco noti – conclude l’esperto – e non riconducibili, nell’immaginario collettivo del consumatore medio, al made in Sicily”. Mentre la politica regionale pensa a una Doc Sicilia per il vino, dunque, anche dal mondo dell’olio viene lanciato un messaggio simile. “Ma bisogna fare presto – conlcude Catagnano – perché siamo già in ritardo di 8-9 anni e se questo processo non viene avviato subito rischiamo che il tessuto produttivo perda la forza per poterlo intraprendere”.
Annalisa Ricciardi