Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 57 del 17/04/2008

LA CERIMONIA Lectio magistralis

16 Aprile 2008
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    LA CERIMONIA

petrini_hp.jpgL’università di Palermo conferisce una laurea honoris causa in Scienze e tecnologie agrarie al fondatore e presidente dell'associazione internazionale Slow Food. Pubblichiamo la versione integrale della sua lectio magistralis

Il dottor Petrini

L'università di Palermo ha conferito una laurea honoris causa in Scienze e tecnologie agrarie a Carlo Petrini, fondatore e presidente dell'associazione internazione Slow Food. La motivazione: «per la passione civile profusa in tutti i campi in cui ha operato tesa a valorizzare e promuovere sia la genuinità dei prodotti alimentari, sia una agricoltura rispettosa degli equilibri naturali». La cerimonia si è svolta nella sala Magna del rettorato dell’università in piazza Marina. Pubblichiamo la versione integrale della sua lectio magistralis.

di Carlo Petrini


    LA CERIMONIA

L’università di Palermo conferisce una laurea honoris causa in Scienze e tecnologie agrarie al fondatore e presidente dell'associazione internazionale Slow Food. Pubblichiamo la versione integrale della sua lectio magistralis

Il dottor Petrini

L'università di Palermo ha conferito una laurea honoris causa in Scienze e tecnologie agrarie a Carlo Petrini, fondatore e presidente dell'associazione internazione Slow Food. La motivazione: «per la passione civile profusa in tutti i campi in cui ha operato tesa a valorizzare e promuovere sia la genuinità dei prodotti alimentari, sia una agricoltura rispettosa degli equilibri naturali». La cerimonia si è svolta nella sala Magna del rettorato dell’università in piazza Marina. Pubblichiamo la versione integrale della sua lectio magistralis.


di Carlo Petrini

Sento il dovere di condividere l’onore che mi fate con questo riconoscimento con quel mondo contadino che in trenta anni di attività è stato per me un sicuro punto di riferimento e una fonte inesauribile di conoscenza.  La mia generazione ha vissuto la fase più intensa di trasformazione sociale, economica e tecnologica delle nostre campagne. La produttività della terra è aumentata in una misura e con una rapidità mai conosciute in passato. L’enorme quantità di fertilizzanti minerali e l’uso sempre più massiccio di sementi selezionate sono alla base di questo incremento produttivo. L’utilizzo delle macchine agricole ha liberato i contadini da inaudite fatiche manuali vissute per petrini_dentro.jpgmillenni come una condanna divina.  I mezzi che hanno realizzato il grande successo dell’agricoltura industriale sono oggi le cause prime del suo declino. Per molto tempo gli effetti degenerativi dell’abuso di concimi minerali sono rimasti inosservati. La terra e la fertilità dei suoli, la base materiale della produzione, risentono fortemente degli effetti negativi di queste trasformazioni. I sali minerali hanno sostituito i processi vitali del terreno che concorrono al nutrimento della pianta. Le piante diventano sempre più incapaci di nutrirsi da sé. In un terreno privo di vita le coltivazioni sono impossibilitate a vivere in modo naturale, diventa necessaria una costante “medicalizzazione”. Si apre quindi un circolo vizioso senza fine, che altera l’equilibrio ambientale e che rende possibile il saccheggio della fertilità storica dei terreni agricoli. La straordinaria produttività agricola è resa possibile da un bilancio energetico sempre più passivo. I metodi industriali che hanno risolto in modo tanto spettacolare alcuni problemi della produzione alimentare sono stati accompagnati da “effetti collaterali” tanto dannosi da minacciarne la sopravvivenza. Questi metodi agricoli rovinano prima la salute del suolo e poi quella delle comunità umane. Il mondo rurale si è trovato inglobato in un processo – quello dell’industrializzazione – che non riusciva a padroneggiare. L’esodo di intere popolazioni dalle campagne verso la città è un fenomeno che su scala planetaria non conosce tregua da oltre cinquanta anni. In questo lasso di tempo l’agricoltura è stata relegata al rango di settore economico minoritario.  Nella provincia di Cuneo, dove sono nato e dove vivo, un grande studioso della società contadina, Nuto Revelli, descrive negli anni ’70 l’abbandono delle campagne. “Il mondo dei vinti”  fu il titolo di quella ricerca poiché proprio in quegli anni la bassa percentuale di agricoltori nella popolazione attiva veniva considerata come un criterio di sviluppo. Questa diminuzione è avvenuta molto rapidamente, in meno di cinquanta anni. Ma oggi si stima che nel Sud del pianeta tra 18 e 20 milioni di persone lascino ogni anno le campagne. Le bidonville che circondano le megalopoli del Terzo mondo testimoniano di questo disastro umano. Le previsioni annunciano un disastro di proporzioni bibliche, 4 milioni di famiglie contadine dovrebbero scomparire nei paesi che hanno recentemente aderito all’Unione Europea. La Cina dovrebbe perdere 400 milioni di contadini. La riduzione di popolazione impiegata nel settore primario è l’obiettivo di un assurdo concetto di sviluppo. Una morte lenta e silenziosa di cui non parla nessuno; ed è una delle condizioni da pagare per aderire all’Europa Comunitaria. L’obiettivo è di porre fine all’arcaismo dell’agricoltura nei paesi dell’Est. Poco importa se questa agricoltura rappresenta in realtà biodiversità, ricchezza culturale, mantenimento degli ecosistemi e del territorio, equilibrio città-campagna, produzione di un’alimentazione di qualità. Poco importa se il risultato di queste migrazioni sarà un aumento della disoccupazione e un aggravamento della delinquenza nei centri urbani. L’importante è che investitori occidentali possano annettersi per quattro soldi le terre di questi contadini, ricavando profitti con la meccanizzazione dell’agricoltura e con il nuovo latifondo magari producendo cereali per biocarburanti.  La difesa del mondo contadino, l’attenzione per le produzioni di piccola scala, la riproposizione di metodi di coltivazione biologica, la salvaguardia di prodotti vegetali o di razze animali in via di estinzione, la tutela dei saperi tradizionali ha portato il movimento Slow Food ad essere accusato ora di elitismo oppure di visioni nostalgiche di un passato povero e miserevole. Alla base di queste critiche c’è la diffusa e secolare convinzione che i saperi contadini sono frutto di routine, di inerzia e di ignoranza.  All’inizio degli anni ’40 del secolo appena trascorso mentre il botanico e agronomo Albert Howard, ritenuto padre della moderna agricoltura sostenibile, osservava i metodi di coltivazione praticati dai contadini indiani con cui nel corso dei secoli hanno mantenuto la fertilità del suolo, lo studioso francese Daniel Faucher scriveva: “La collettività contadina si afferma come particolarmente inadatta a quelle trasformazioni che inglobiamo nel termine di progresso. Esiste uno stato d’animo, un atteggiamento specificamente contadino che non è riferibile soltanto all’ignoranza, ma è invece collegato alla vita agreste ai modi e allo scopo del lavoro contadino. È un sistema chiuso, l’intelligenza contadina è chiusa, tutto diventa tradizione, e cioè routine.” Questa visione del mondo contadino ha consentito che i saperi e le abilità di questa classe fossero svalutati a favore di una cultura scientifica e tecnologica monopolizzata da specialisti. Le soluzioni pratiche dei contadini hanno fronteggiato enormi problemi, commettendo errori, tornando sui propri passi, facendo confronti e trovando soluzioni migliori. Generazioni di contadini in tutto il mondo hanno migliorato le sementi, fertilizzato i suoli, irrigato i campi, allevato il bestiame. La trasmissione di questi saperi si trasmetteva all’interno delle famiglie e delle comunità in forma orale senza grandi testimonianze scritte. Spesso bisogna andarli a scoprire nei proverbi, nelle poesie, nei canti. L’agricoltura plasmava la cosmogonia, l’arte, gli stili di vita. L’alimentazione, la casa, l’abbigliamento variavano da un territorio all’altro e la scienza antropologica ci testimonia l’ingegno che ha fatto sì che in situazioni estreme uomini e donne si siano organizzati per vivere, e pure per vivere bene.  Il tesoro sono i “saperi lenti”, viventi nelle braccia e nel cuore di milioni di contadini aggrappati alla propria terra, nelle mani di cuoche e cuochi vicini al mondo della produzione agricola, nelle tradizioni di popoli che hanno bisogno di migliorare la propria condizione a partire dal proprio stato, e non rinnegandolo completamente, buttandolo via. Nel tempo e con gradualità crescente i saperi della terra si sono trasferiti dalle comunità alle scuole e alle istituzioni specializzate. Il distacco tra l’agronomia e la società contadina ha portato la ricerca in laboratori e campi di prova fuori da quel contesto ambientale e sociale in cui si esprime la cultura agricola. L’agronomia è certo diventata uno strumento di conoscenza, ma sovente dipende dalle industrie agro-alimentari, che spesso la finanziano e la condizionano. Alcuni agronomi, in particolare quelli che lavorano sul campo, sono diventati consapevoli dei limiti della loro scienza e dei rischi che fanno correre agli ecosistemi. Riconoscono l’importanza dei saperi contadini e la necessità di unire ricerca agronomica e conoscenze tradizionali. Questo patrimonio di conoscenze deve tornare a essere più vivo che mai; non in maniera antagonista alla scienza moderna, ufficiale, alle nuove tendenza che si sviluppano nel mondo globalizzato delle nuove tecnologie, ma per instaurare un dialogo tra quelli che sono regni diversi, per incrociare i saperi, dando loro pari dignità e autorevolezza.  Con i “saperi lenti” bisogna attuare un «dialogo tra regni», che non è ricerca dell’arcaico, immobilismo o rifiuto della scienza, ma è la precisa volontà di attingere a diverse fonti di saggezza. Una scienza agronomica che dialoghi con l‘agro-ecologia e con i saperi contadini; una ricerca scientifica che non vada soltanto nella direzione del produttivismo, ma che sappia mettersi al servizio delle comunità produttrici e dell’agricoltura di piccola scala, confrontando le rispettive conoscenze. Non ci deve essere un piano predominante: nessuno dei due regni è chiamato a dimostrare la validità dell’altro, è sufficiente che comunichino e mettano a disposizione il proprio sapere al servizio di un cibo buono, pulito e giusto. Questa è la nuova frontiera, che vede un numero crescente di contadini e di imprenditori agricoli, tanto nel mondo post-industriale quanto nei paesi poveri, rifiutare la logica di un’agricoltura insostenibile. Attraverso forme alternative di pratiche agricole che bandiscono i concimi chimici, i pesticidi e i diserbanti essi trovano il consenso di un pubblico crescente di consumatori. Tacciata di essere una pratica retrograda e funzionale a ceti ricchi della popolazione, questa agricoltura è il risultato di una scienza più raffinata, che rispetta la biodiversità naturale e la fertilità del terreno. Questi agricoltori praticano ancora la selezione delle razze animali e di varietà vegetali adatte agli ecosistemi, nel rispetto delle condizioni ecologiche locali: suolo, microclima, parassiti, insetti, “erbe cattive”. Questi sistemi di produzione permettono spesso di trarre il miglior profitto dai cicli del carbonio, dell’azoto e degli elementi minerali, diminuendo progressivamente il consumo di concimi chimici, limitando carburante e prodotti fitosanitari, e quindi riducendo le loro emissioni di gas a effetto serra e i loro diversi processi inquinanti.  Per uscire dal circolo vizioso delle solite critiche occorre favorire l’agricoltura sostenibile e a circuito breve, aprendole un mercato: quello della ristorazione collettiva (mense scolastiche, ristoranti universitari, ristoranti di aziende, case di riposo, ospedali e cliniche), un immenso mercato di milioni di pasti al giorno. È il lavoro che per esempio in molte parti del mondo portano avanti i convivia di Slow Food, al fine di garantire un’alimentazione sana, diversificata e di grande qualità organolettica, per assicurare il mantenimento in attività di un gran numero di contadini, evitando la desertificazione delle campagne, costruendo una nuova socialità rurale per rispondere alle domande delle nuove generazioni. L’obiettivo è di ridurre il tasso di inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra attraverso le coltivazioni meno dispendiose di energia fossile, anche rifiutando le coltivazioni con organismi geneticamente modificati. Gli Ogm, al di là dei pericoli più o meno dimostrati nei confronti di biodiversità, ambiente e salute umana, sono la massima espressione di un sistema agro-industriale che mira a togliere libertà alle comunità produttive, ai contadini. Un sistema che ha ormai dimostrato tutti i suoi limiti, oltre a nessun rispetto per ogni forma di etica o di estetica. Occorre una rivalutazione del rendimento dei sistemi agricoli non considerando solo i costi monetari ma anche l’impatto ecologico: la preservazione del patrimonio naturale, i bilanci energetici, la bellezza dei luoghi, i benefici alimentari e sanitari per la totalità della società. Queste sensibilità sono evidenti e tangibili nella grande assise di Terra Madre, attraverso pratiche ed economie locali che tuttavia sono in grado di mettersi in rete e di confrontarsi con altre reti. Non c’è dubbio che Terra Madre si configuri come un nuovo soggetto politico e sociale, un imponente fiume carsico in grado di coinvolgere milioni di persone e migliaia di comunità nei 154 Paesi in cui è presente. Il termine “comunità del cibo” indica bene le caratteristiche di questi gruppi eterogenei, che condividono il fatto di essere una comunità (fisicamente individuabile, un villaggio, che ha valori e interessi comuni, di destino) che si occupa – attraverso la salvaguardia dei semi, la raccolta, l’agricoltura, la pesca, la distribuzione la promozione, l’educazione e altre attività gastronomiche – di far sì  che un cibo, generalmente di produzione di piccola scala, arrivi fino a chi lo mangerà. Va detto che siamo al di fuori del mondo dei sindacati o dei partiti o dei movimenti: le comunità di Terra Madre sono composte da semplici lavoratori, che prima dell’evento avevano la diffusa sensazione di essere piuttosto soli nel mondo. Con la forza di una ritrovata autostima e con la volontà di rimanere tra loro connesse, queste comunità possono ora affrontare le grandi sfide di questo mondo globalizzato.  Oltre alle emergenze ambientali e salutistiche, è emerso in questo ultimo periodo l’aumento su scala planetaria dei prezzi dei cereali, evocando lo spettro della fame in vaste zone del mondo. Piaccia o non piaccia queste sfide si possono vincere solo se le diverse aree del pianeta saranno presidiate da forti agricolture locali, se il principio della sovranità alimentare si affermerà con scelte responsabili che sappiano privilegiare le giuste domande interne rispetto al sistema delle esportazioni. In parole povere questo significa una scelta decisa verso la ri-localizzazione dell’agricoltura e la tutela di una nuova classe contadina; ovvero l’idea forte dell’economia locale.  La crisi ambientale è ormai un fatto assodato della nostra epoca e si è verificata perché la “casa”, o economia umana, è in conflitto su tutto con la natura. Abbiamo accettato un’economia in cui mangiando, bevendo, lavorando, riposando, viaggiando, e divertendoci distruggiamo il mondo naturale. Sul fronte alimentare è del tutto evidente che gli agricoltori in questo genere di economia globalizzata non sono in grado di controllare la produzione per garantirsi prezzi equi. I singoli produttori non hanno la forza per contrattare e avanzare richieste. Devono vendere sempre di più non ai vicini o in città vicine,  ma in grandi imprese lontane. Queste incoraggiano la sovrapproduzione poiché i produttori cercano di compensare le perdite con la quantità, che determina inevitabilmente prezzi bassi. Spreco, prezzi minimi e bassi standard qualitativi: l’unico modo per difendersi è mettere in pratica l’idea di una economia locale.  Per buone ragioni, si parte dall’idea di un’economia locale alimentare. Limitare l’intermediazione significa innanzi tutto accorciare le filiera che un prodotto percorre dal campo alla tavola: è dunque necessario ripartire da un sano localismo per tutti quei tipi di alimenti che possono essere coltivati, allevati e trasformati in aree geografiche limitate. Che senso ha far viaggiare attraverso i continenti verdura, frutta, carni se possono essere (e quasi sempre lo sono) prodotte in loco? Il cibo locale ha il vantaggio della freschezza, di una conservazione maggiore del sapore nel suo tragitto verso la tavola (molte varietà «da esportazione» sono state selezionate per rispondere a criteri di conservazione e di resistenza ai viaggi, tralasciando fattori determinanti per il gastronomo, come la bontà e il gusto) e il rispetto di alcuni criteri di sostenibilità: con piccole produzioni locali l’impiego di agenti chimici può essere molto limitato, i prodotti non viaggiano e dunque non inquinano, si mantengono vive le zone rurali (i gruppi d’acquisto urbani sono un ottimo modo di connettere le città a campagne vive) con una produzione autoctona e variegata. Questo localismo consente già una buona riduzione dell’intermediazione speculativa, perché se il prodotto deve fare meno strada è quasi ovvio che passerà attraverso un numero minore di mani (e di ricarichi sul prezzo finale).  Ritengo che esista una legittima linea di pensiero che va dall’idea dell’economia globale all’idea di un’economia locale. Questo significa liberare forme di partecipazione democratica, di informazione e di progettualità. Nell’economia globale l’individuo non conosce da dove vengono gli alimenti, chi li ha prodotti, quali tossine sono state usate per produrli, quali sono stati i costi umani ed ecologici della loro produzione e del loro smaltimento. La complessità della materia gastronomica e l’impegno – per la propria gratificazione e per la salute del pianeta – a ricercare una qualità buona, pulita e giusta rendono molto ardua la vita di quello che comunemente viene definito come il consumatore. La quantità di informazioni che è necessario reperire combinata con lo sforzo educativo (dei sensi, della sensibilità e dell’intelletto) che bisogna compiere, possono arrivare a confondere, affaticare sino all’arrendevolezza, alla passività nei confronti di metodi di produzione insostenibili per il gusto, l’ambiente e la società. Consumare oggi è difficile, rispetto a certe situazioni più che produrre. Ma non è il caso di arrendersi, anzi: è necessario ripensare, ridefinire il ruolo del consumatore, a partire dalla stessa terminologia.Il consumatore nasce con la società dei consumi, il consumatore consuma. Ma non consuma soltanto le merci che acquista: consuma la terra, l’aria, l’acqua. Questo consumo se mantenuto con le caratteristiche attuali porta alla distruzione. L’attività stessa di produzione comporta un consumo: spesso, calcolando tutti i tipi di costi possibili (anche quelli esterni al mero processo), non si può non notare che il bilancio è in perdita. Non si vuole qui arrivare al rifiuto del sistema capitalistico in sé, o accanirsi contro ‘il vil denaro’, ma dietro a questa parola, consumatore, si nascondono purtroppo modelli sbagliati, un approccio sbagliato, una distanza che oggi appare soltanto molto faticosamente colmabile. La parola stessa lo dimostra: il consumo, entrato nel linguaggio comune, non riesce più a non celare quello che in realtà è il suo vero significato, cioè logoramento, usura, distruzione, esaurimento progressivo. Per questo, a partire dai termini, dobbiamo cambiare attitudine. Il consumo è l’atto finale del processo produttivo e di filiera: va visto come tale, non più estraneo al processo. Il vecchio consumatore deve pertanto iniziare a sentirsi in qualche modo parte del processo produttivo, conoscendolo, influenzandolo con le sue preferenze, supportandolo se in difficoltà, rifiutandolo se sbagliato o insostenibile. Il vecchio consumatore, oggi nuovo gastronomo, deve iniziare a sentirsi come un co-produttore. Responsabilità del produttore sarà quella di accoglierlo come tale, per creare una nuova comunità di intenti, una nuova comunità produttiva con al centro il cibo (che infatti chiameremo comunità del cibo), valore unico e fondamentale, auspicabile somma dei valori necessari affinché sia prodotto e co-prodotto in maniera buona pulita e giusta.  L’abissale distanza, la totale estraneità tra la figura del produttore e quella del consumatore, tra il momento della produzione e quello del consumo alimentare sono fenomeni piuttosto recenti e in espansione. I metodi di produzione del cibo di stampo industriale – e più di tutto le filosofie quantitativistica, riduzionista e utilitaristica che portano con sé – ne sono i principali, diretti e indiretti, responsabili.Questi stili produttivi hanno fatto sì che la conoscenza sulla produzione si specializzasse e si tecnicizzasse fino a diventare incomprensibile per chiunque non ne sia direttamente responsabile. Hanno allontanato (occultandosi in grandi stabilimenti) e centralizzato i luoghi di produzione, togliendoli dalla vista e cancellandoli dalla realtà comune vissuta dai più. Hanno artefatto la materia naturale fino a renderne irriconoscibili o quasi riconducibili al vero le caratteristiche originarie. Hanno fatto sì che si mercificasse ogni fase, dalla coltivazione alla distribuzione, arrogandosi tutte le conoscenze (agricole, di trasformazione, di commercio), fino a presentare al consumatore un prodotto finito, incartato, trasformato con tecniche incomprensibili e non spiegate, da comprare come un qualsiasi altro bene di consumo, marchiato. Il marchio come surrogato delle caratteristiche reali di un prodotto. Il marchio come surrogato di conoscenza. Ci hanno lasciati, in soli cinquant’anni, confusi e poi spaventati (mucca pazza docet), incapaci, se non attraverso un lenta e faticosa opera di apprendimento, di capire, di giudicare da soli.Ma il cibo, come si è già ampiamente sottolineato, è ben di più che un semplice prodotto da consumare: è felicità, identità, cultura, piacere, convivialità, nutrimento, economia di territorio, sopravvivenza. Pensare di spogliarlo di tutti questi valori, di tutte le connotazioni che un boccone può portare immediatamente con sé, pensare di mediare e ridurre queste connotazioni fino a farle scomparire, è una delle più grandi follie che l’uomo abbia mai concepito.Prima che avvenisse questa vera e propria rivoluzione che ci ha lasciati ignoranti e incapaci di gustare, la situazione era profondamente diversa: le conoscenze basilari sul cibo, la sua provenienza, la sua trasformazione, la cucina, un tempo venivano tramandate di generazione in generazione quasi in maniera fisiologica. La vita in campagna, ma anche la prossimità dei cittadini alle materie prime, tramite il rapporto instaurato con i produttori al mercato o con il negoziante di quartiere, favoriva un naturale processo di apprendimento. Il savoir faire familiare insegnava senza ‘lezioni’ formali: i bambini vedevano i padri porzionare gli animali per il consumo, raccogliere i prodotti dell’orto, le madri fare le conserve e cucinare tutti i giorni, secondo stagione. Quanti oggi conoscono ancora a menadito i nomi dei tagli delle carni? Quanti sanno come si fa una buona conserva? Esisteva una sorta di cordone ombelicale garantito dalla prossimità tra pratica agricola, trasformazione e consumo. Molte attività di questa ‘filiera’ erano appannaggio del consumatore stesso, che quindi era di fatto un co-produttore. Questa non era soltanto una prerogativa del mondo contadino: in città avveniva lo stesso, retaggio di un recente passato in campagna o no, il contatto, la conoscenza, l’informazione tra produttore e cittadino si palesava comunque nelle botteghe e nei mercati. Quel cordone ombelicale oggi è reciso, in maniera drammatica. Aprire una confezione di pasta al sugo da scaldare semplicemente per pochi minuti in padella, ci fa dimenticare, ci fa non considerare che pasta stiamo mangiando, che pomodori sono presenti, quali altri ingredienti concorrono alla realizzazione di quel piatto e che storia hanno. Il consumo non ha più nulla a che vedere con la produzione, anche perché in mezzo si è frapposto, sempre più invadente, titanico, centralizzato, il sistema distributivo dei cibi, carico di paradossi.Anche in questo caso le innovazioni hanno dato l’impulso: metodi di conservazione, catena del freddo, mezzi di trasporto e logistica sempre più potenti, veloci e raffinati. Se Nicolas Appert o Francesco Cirio si possono ben inserire nell’elenco dei benefattori dell’umanità, con le loro invenzioni sui metodi di inscatolamento e sterilizzazione, il principio che li ha animati si è sempre più velocemente trasformato sino a diventare paradossale: consumare un pesce di scarsa qualità pescato nell’Oceano indiano oggi è facile, accessibile, ma insostenibile. Il latte oggi rimane “fresco” per settimane grazie a procedimenti tecnici molto sofisticati e la legge consente di chiamarlo “fresco” anche quando è a lunghissima conservazione: non si sa da dove provenga, genera sistemi distributivi inefficienti e inquinanti (che senso hanno centinaia di T.I.R che trasportano il latte in tutta Italia da uno stabilimento che li colleziona da altrettante parti del paese? Non sarebbe più logico e pulito far fare al latte i minori viaggi possibili affinché sia sempre fresco, con la garanzia di una produzione locale?).Se l’industria ci ha privati dei saperi, la grande distribuzione ha accentuato questo esproprio, fino a rendere irrintracciabile qualsiasi provenienza dei prodotti. La parola rintracciabilità, un must per ogni filiera produttiva che si rispetti oggi giorno, soltanto una decina di anni fa quasi non esisteva; prima di mucca pazza e dei polli alla diossina non era di fatto possibile risalire al luogo di produzione della materia prima per i prodotti industriali. È ancora molto complicato capire in che campo è stata coltivata un’insalata servita in un fast food, anche se questa viene dichiarata ‘nazionale’: sì, ma di dove precisamente? In che tipo di coltivazioni? Dopo quali trattamenti per la conservazione? Al prezzo di quali trasporti e eventualmente quali sfruttamenti? Va detto che oggi da questo punto di vista si registra una lieve inversione di tendenza, almeno per quanto riguarda le dichiarazioni di intenti di molti grandi produttori e distributori, ma la distanza creatasi tra luogo agricolo e consumo finale è così ampia che sono necessari grandi sforzi per garantire un sistema di tracciabilità per tutti i prodotti.Ricolmare questa distanza non significa che dobbiamo tornare tutti a vivere in campagna o a produrre direttamente il nostro cibo, ma il cordone ombelicale reciso può essere ripristinato: attraverso la ricerca di informazioni, grazie all’impegno dei produttori nel comunicare i propri processi e movimenti di materie prime, grazie alla grande distribuzione che deve ripensare il suo sistema in funzione di una maggiore localizzazione, grazie a noi stessi e alla nostra volontà di tornare a essere co-produttori come un tempo lo si era quasi naturalmente (ma ripeto, nuovi co-produttori) e di instaurare delle nuove comunità del cibo in cui il nuovo gastronomo rappresenta semplicemente l’anello finale, ma funzionale all’intera catena. Anzi, delle comunità del cibo in cui tanto i produttori, quanto i co-produttori sono uniti, si sentono e operano a pieno titolo come dei nuovi gastronomi. Wendell Berry, da buon poeta, è riuscito a condensare in una frase tutto il significato dell’essere co-produttori: “mangiare è un atto agricolo”. È giusto adottare queste parole e farle diventare un vero e proprio motto, c’è condensata tutta la consapevolezza che in quanto consumatori finali di un lungo processo che parte dalla terra, con le nostre scelte influenziamo la produzione, gli stili di gestione dei terreni e dell’ambiente, nonché il futuro delle comunità agricole. C’è anche tutta la solidarietà, il senso comunanza, quasi di appartenenza, che dovremmo sentire verso i produttori del nostro cibo. Riavvicinarli, fisicamente e idealmente, è una missione del nuovo gastronomo.Ma il senso di comunanza, di comunità, deve essere condiviso dai produttori, con consapevolezza e tramite l’apertura più totale. Parafrasando Wendel Berry pertanto si può anche sostenere che “coltivare, allevare, trasformare deve essere un atto gastronomico”. Il sistema di consumo che si è imposto, l’allontanamento di chi fa da chi mangia, ha portato a un estraniamento vicendevole tale che si addirittura creata una contrapposizione, un antagonismo tra produttore e consumatore. Entrambi soli, scollegati, finiscono per l’essere in mano a chi controlla i processi intermedi. Si va dal caso dello scorso inverno in Italia, quando i prezzi di frutta e verdura sono saliti a dismisura al dettaglio mentre gli agricoltori lamentavano minimi storici per quanto riguarda i prezzi all’ingrosso, fino alle più grandi distorsioni e ingiustizie globali, con contadini che lavorano merci che faranno il giro del globo per finire in chissà quale piatto attraverso chissà quale processo di trasformazione, lasciandoli nella miseria più totale. La deriva è che in questo modo, abituato a produrre così, in un paio di generazioni il contadino perde anche i suoi sensi, e infatti lo svilimento del suo rapporto con la natura si traduce anche in ciò che mangia: un tempo, anche se povero, non rinunciava al gusto – la cucina tradizionale contadina ce lo dimostra – oggi egli per nutrirsi si confonde con i consumatori  tra gli scaffali del centro commerciale più vicino, riempiendosi il carrello di cibo pessimo, senza gusto. Il contadino, esattamente come il consumatore, resta senza sensi, non può più essere padrone della sua realtà, e del suo futuro.Da un lato abbiamo dunque produttori soli, confusi che si confondono tra i consumatori, e dall’altro consumatori soli, confusi. Tutti consumano il mondo: chi produce non sa di gastronomia, chi consuma non sa di agricoltura; chi si occupa di ecologia non la collega al cibo, la ricchezza è mal distribuita, le conoscenze scompaiono.In questo panorama il potere va alla distribuzione, agli intermediari e chi fornisce strumenti per il lavoro del contadino-operaio (semi ecc.), a chi crea il marchio del prodotto finale, irrintracciabile e irriconoscibile se non con la pubblicità (che, guarda caso, cerca sempre di simulare una certa naturalità: bottiglie d’olio raccolte sugli alberi, oasi ecologiche non ben localizzate, spighe a profusione sulle confezioni di pane industriale in cassetta). Il caso di holding finanziarie che possiedono contemporaneamente mangimifici, sistemi di allevamento in socida, mezzi di trasporto, industrie degli insaccati e del latte, partecipazioni in catene di supermercati è la rappresentazione più chiara di un’industria vera e propria, ma sfuggente, i cui collegamenti sono amministrati da pochi, in cui il contadino inconsapevole è un operaio al suo servizio e il consumatore consuma, imbonito da marchi e pubblicità. Questo sistema deve cambiare e c’è solo una figura che può mettere d’accordo tutti, che può e deve riguardare tutti: il nuovo gastronomo. Una figura che appartiene a: contadini dalla sensibilità gastronomica, co-produttori (consumatori consapevoli che “mangiare è un atto agricolo”), entrambi sullo stesso piano, protagonisti della produzione del cibo e in cerca di tutta la dignità che spetta loro. Per raggiungere questo obiettivo bisogna educarsi e essere nuovi gastronomi, ma anche riuscire a superare le distanze, quelle di ogni genere, e sentirsi parte di una comunità, intesa come comunità produttrice ma anche come comunità di destino, un destino comune.Queste comunità (del cibo e produttrici) sono legate e intersecate tra di loro, più o meno direttamente fino al livello massimo, planetario: la comunità di destino. Le comunità produttrici e quelle del cibo (di produttroi e di co-produttori), possono essere quindi locali e globali: applicano il principio dell’adattamento locale, ma si sentono sorelle di tutte le altre che operano in ogni luogo del mondo. Perché ogni nuovo gastronomo (tanto il produttore quanto il co-produttore) è consapevole di condividere un destino, e che questo destino si determina con le scelte che compie, che si auspicano buone, pulite e giuste. Stiamo parlando ovviamente del destino della terra, che i rapporti degli studiosi ci danno come gravemente malata, sbilanciata economicamente, sempre più veloce e triste.La comunità del cibo (che ricordiamo, può comprendere anche quella produttrice) opera sul territorio, si rappresenta attraverso al conoscenza dei suoi membri e di ciò che fanno, ma può anche essere trasversale a una stretta localizzazione: può essere composta da persone accomunate dal proprio lavoro situate in una determinata zona, ma può anche essere composta da persone accomunate dal fatto che costituiscono una filiera produttiva completa, fino al consumatore, o meglio, il co-produttore. Lo sforzo di tutti è far sì che le distanze, fisiche e ideali, diventino il più corte possibile. E che allo stesso tempo non ci sia nessun tipo di isolamento tra le diverse realtà: siamo tutti gastronomi. Anche se non consumo la quinoa di una piccola comunità produttrice di agricoltori peruviani, devo sentirmi loro co-produttore, condividere le loro finalità, aderire idealmente al loro progetto di riscatto sociale e difesa della biodiversità. Essendo un gran consumatore di pomodori San Marzano campani, sono un co-produttore dei contadini che li hanno salvati dall’estinzione tra mille sacrifici. Se compro delle mele al mercato direttamente dal contadino, è meglio che lo conosca, che gli parli, che gli chieda come le coltiva, perché voglio essere suo co-produttore. Appartengo a diverse realtà, ma al contempo a una sola: a diverse comunità del cibo, ma a una sola comunità di destino.Vivere fino in fondo questa progettualità, realizzare una società sostenibile, coniugare in maniera totalmente antagonista l’esigenza del nostro benessere, del bene comune rispetto al pensiero dominante di una crescita e uno sviluppo senza limite, richiede un’azione pratica, convinta e determinata.Come il coltivatore si pone il problema di rigenerare la fertilità del suolo, chi coltiva i campi del sapere deve porsi il problema della bonifica del pensiero. Ma questa frontiera non la vediamo ancora nei campi dell’economia, della politica, della stessa società civile, dobbiamo prefigurarla nel contesto societario. Questo è il vero campo sperimentale, dove si crea l’humus rigenerante, ridare senso alla nostra missione più concreta.Ah, come funziona la metafora del nuovo concetto di co-produttore e della comunità di destino nel contesto universitario. In fondo, docenti e discenti dell’università rappresentano la vera comunità di destino, qualcuno strada facendo ha perso la bussola, scambiando il bene totale con il bene comune. L’università non è il supermarket del sapere dove si persegue la legge totale, sommatoria indistinta dei saperi, ma deve essere il terreno fertile del bene comune che privilegia la logica sommatoria, l’idea e la politica produttoria. La comunità universitaria sappia rigenerare o reinventare il ruolo dei discenti non come consumatori di cultura ma come co-produttori. Soggetti attivi a cui viene affidato anche il diritto all’errore perché comunque i docenti sono maestri pazienti e praticano la nobile arte del coltivare. I tempi di questo lavoro sono lenti, non frenetici, le idee buone hanno un loro metabolismo, la coltivazione ha un suo ritmo che deve essere rispettato.Tanto l’impresa è ardua e forte, tanto si farà sentire la perfidia di quel falso pragmatismo in genere povero di idee.“Siete dei sognatori” – “vivete fuori dalla realtà” – “scendete dalle nuvole” – “uscite dal mondo dei sogni”. Non so da quanto tempo è invalso questo costume di sbeffeggiare il diritto a sognare. Eppure è la capacità visionaria una delle energie più forti, l’unico fertilizzante biologico che prepara il terreno per una nuova semina.Nel rendere omaggio a questa nobile terra che da oggi mi vede più sodale e partecipe del suo prestigio, voglio ricordare con nostalgia il mio primo viaggio in Sicilia. Sono passati trent’anni e mi viene alla mente il mio pellegrinaggio enolico, per vigne e cantine. Alcuni di quei protagonisti sono in questa sala, altri se ne sono andati, ma resteranno indelebili nella mia memoria la patriarcale, austera e aristocratica figura del conte Giuseppe Tasca d’Almerita e la generosa visionarietà di Carlo Hauner, isolano di Salina nato per caso a Milano. Questa generazione aveva un sogno: fare di questa terra una realtà enologica di prestigio mondiale; senza quel sogno oggi la Sicilia non sarebbe quello che è. I giovani produttori rispettino e siano grati a questi sognatori e sappiano coltivare la fertile vigna delle idee che viene prima del marketing e del profitto.Quando con pochi coraggiosi amici studiavamo il progetto della prima Università di Scienze Gastronomiche, mettevamo in fila i sogni di una disciplina che il mondo accademico non solo non conosceva, ma che, in generale, non era ancora intesa nella sua complessità e modernità. Le grandi imprese hanno bisogno di sogni.Un mondo sostenibile che sappia coniugare la sobrietà con la felicità e porsi l’obiettivo di rispettare la nostra Terra Madre, non deve prefigurare un percorso di mortificazione, ma sognare una società più partecipe e vitale, una società fraterna e solidale.

Ecco, se dovete sintetizzare questa conversazione, al di là dei suoi contenuti politici e sociali, vorrei che venisse ricordata con questa frase di Edgar Allan Poe: «Chi sogna di giorno conosce molte cose che sfuggono a coloro che sognano solo di notte».