Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Articoli sul Marsala

Andrea Vesco “Il Marsala del futuro: territorio e modernità”

10 Maggio 2010
andrea-vesco andrea-vesco

L’INTERVENTO

Il pensiero del titolare delle cantine Rallo: “La Doc non basta da sola a garantire qualità. Ecco come cambiare questo vino in meglio”

“Il Marsala
del futuro:
territorio 
e modernità”

di Andrea Vesco*

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Caro direttore,
i recenti commenti, successivi alla sua provocatoria proposta di rivedere radicalmente il disciplinare di produzione del Marsala, obbligano tutti coloro che come me hanno a cuore l’argomento di porsi almeno alcuni interrogativi utili alla definizione di un ambito di riflessione che, abbandonando l’arena sterile della critica di maniera, approdi su un terreno fertile di fattive e pensate considerazioni utili alla possibile ridefinizione del significato “vino Marsala D.o.C.”. Accetti le mie parole come interrogazioni sul tema, o più verosimilmente come divagazioni dal tema, sogni ad occhi aperti, sbavature; e in alcun modo le  immagini come soluzioni, neppure di massima, di un problema che lei ha sollevato ma a cui solo la collettività coinvolta potrà dare risposte.       
Il dibattito che si è creato risulta nel suo insieme estremamente interessante, alcune posizioni più consapevoli di altre, alcuni giudizi più misurati di altri, alcune dichiarazioni meno di maniera di altre. Il tutto mostra come l’interesse sul tema esiste ed è vivo, e le posizioni, seppure tutte unite da un comune denominatore, risultano sufficientemente distanti per dare spazio alla replica.
È sul comune denominatore però che si concentrano le mie riflessioni. Tutte  le risposte fin’ora date alle domande di Manuela Laiacona, seppure alcune di loro tra loro apparentemente distanti,  rimangono all’interno di uno spazio ben delimitato, non riescono ad andare oltre un certo limite, forse non lo percepiscono. Si muovono tutte entro un ambito di pensiero che vede il disciplinare come la sommatoria di elementi rigidi per certi versi immodificabili se non negli aspetti quantitativi. Una serie di regole da rispettare al modo di un imperativo categorico su cui qualunque riflessione di merito qualitativa, rischia di essere inopportuna. Mi spiego, gli interlocutori ai quali, grazie alle interviste pubblicate, sono rivolte, oltre che a lei direttore,  le mie parole, almeno in prima battuta, mi sembra continuino da un lato ad avere nei confronti della D.o.C. una eccessiva considerazione, un atteggiamento che è proprio del pubblico meno informato. Ho l’impressione che la D.o.C. sia ingenuamente percepita come una certificazione di qualità, nel senso più stringente del termine, una garanzia di bontà organolettica per cui tutto quello che è D.o.C. dovrebbe per definizione essere molto buono o per lo meno assai gradevole. Sappiamo tutti che non è così,  la denominazione di origine è, nel più riuscito dei casi,  uno strumento di tutela del consumatore limitatamente alla provenienza del vino e al rispetto di alcuni requisiti produttivi minimi. L’eccellenza produttiva è un’altra cosa. Tutt’altra cosa. Dall’altro, non mi sembra, immaginano reali alternative; le novità rivoluzionarie prevedono la rottura degli schemi, il superamento dei limiti, non la rivisitazione, seppure radicale, del paradigma esistente
Ciò che riduce la capacità di visione è, a mio avviso, l’incapacità di scomporre il piano tecnico enologico, temporalmente contestualizzato, con il territorio inteso come zona e la sua storica e tipica dotazione ampelografia. Pertanto per i più oggi, il vino Marsala ideale proveniente dall’areale interessato dall’attuale denominazione di origine Marsala e oltre essere ottenuto prevalentemente ma non esclusivamente da uve Grillo sembrerebbe dovere anche essere sempre fortificato, e infine,  più o meno a seconda dei punti di vista, conciato.
La tecnica corre sempre avanti a se stessa, e l’enologia è una tecnica, le dotazione pedologiche e le varianti genetiche che condizionano le identità ampelografiche subiscono modifiche incommensurabilmente più lente.
Il vino Marsala è il primo vino industriale della storia italiana, almeno nella sua concettualità, nella sua genesi, e il termine industriale non ha sempre e solo connotazioni negative. Industriale, volenti o nolenti, è l’orizzonte in cui ci muoviamo fatto di processi replicabili ed economici. L’industria è una declinazione della tecnica e la tecnica è il nostro ambito. È la sovrapposizione di elementi con dinamiche evolutive incoerenti che ha portato al cortocircuito, ad un disciplinare che non riesce a vedere nella tecnica enologica che esprime e che, per certi versi, giustamente difende,  un limite da superare piuttosto che un dato essenziale.
La maderizzazione, la fortificazione, la concia sono tecniche enologiche al pari della pigiatura in riduzione, del controllo della temperatura in fase di fermentazione o del salasso.
Sono solo tecniche più antiche che appartengono ad una fase specifica della storia del vino, fase in cui il vino entra all’interno dei  primi circuiti commerciali globali.  Non per questo dobbiamo pensarle come  inappropriate o datate, ma oggi disponiamo di altro. Agli inizi della storia del Marsala, siamo sul finire del 1700, il termine microbiologia non aveva riferimenti, non esisteva neppure il concetto di un sapere scientifico che oggi costituisce l’orizzonte razionale di tutti coloro che a ragione o a torto si definiscono enologi. Il vino Marsala, nato per plagio, si chiamò a lungo,  per circa un trentennio, in onore al suo progenitore illustre di cui era appunto soltanto una copia, vino alla “modalità di Madeira”. La tecnica di fabbricazione con cui era prodotto, da vino globale e industriale quale doveva essere, prese il sopravvento su tutto, sul terroir, la cui concettualità era pur  in Francia ancora in embrione,  e sulla base ampelografia, il cui presupposto, la tassonomia linneiana, era solo agli inizi. Con quel vino la borghesia emergente brindò ai ricavi dei propri commerci e al domino della tecnica intesa non come possibile e molto pericolosa modalità di intervento sulla natura ma come ambito esclusivo della ragione umana.  
Il vino Marsala così come noi oggi riusciamo a pensarlo uno, seppure nelle sue troppe differenziazioni, sconta un’arretratezza tecnico enologica di almeno 250 anni.
È questo il punto, un vino vecchio prodotto in un area ad altissima vocazionalità; per lo più pessima, troppe poche volte eccellente espressione di una capacità tecnica antica e di un territorio che oggi, con la stessa base ampelografia,  può e sa esprimere ben altro. Bisogna sforzarsi di pensare il vino Marsala D.o.C. non come una icona ma molto più semplicemente come il vino di Marsala, il vino prodotto in un determinato territorio, Marsala,  con determinate uve, il grillo, e in un preciso momento storico, oggi, con le capacità e le prerogative di oggi,  non 250 anni fa.
La tecnica dunque, oggi come ieri,  è bene esplicitarlo, costituisce al pari delle uve e della micro zone uno dei tre pilastri su cui poggia l’identità di qualunque vino possibile, gli elementi grazie ai quali si può tracciare di un qualunque vino un determinato profilo unico e inconfondibile.
Usciamo, per carità, dalle banale retorica stucchevole e semplicistica, del vino come risultato, evidentemente contraddittorio, di nessuna manipolazione. Tutto ciò che è,  arriva da altro ed esiste per mezzo di altro. Tranne il primo immobile, ogni cosa è un risultato, Io giro per vigneti da più di trent’anni e non mi è mai capitato di vedere sulle vigne altro che grappoli, mai una bottiglia appesa ad una vite. La difficoltà semmai da sciogliere, quella su cui misurarsi se lo si desidera, magari in altra sede,  è quando la tecnica supera i confini del lecito, non del giuridico, quando diventa “eccessiva” rispetto alle altre componenti essenziali, zona e vitigno. La via della negazione non porta ad alcuna soluzione, né risoluzione.
Il marchio Rallo con cui ogni giorno a fatica mi confronto, tanto spiccata e viva,  a dispetto dell’età,  è la sua personalità, mi obbliga ad osare, mi invita, forte della sua storia, a guardare avanti, e con l’animo da pioniere che nei suoi 150 anni di vita ha sempre mostrato, mi esorta affinché possa continuare a vivere,  a pensare, un vino Marsala D.o.C. contemporaneo. Un vino bianco ottenuto esclusivamente da uve Grillo, allevate con passione nella fascia costiera, e solo in quella, che va da Trapani a Mazara del Vallo. Rallo mi incita a immaginare per se e per tutti noi, un bianco affascinante e mirabilmente equilibrato capace di coniugare la molle mediterraneità fatta di bouquet agrumati con freschezza e sapidità spiccate,  all’interno di una cornice minerale irreplicabile alle nostre latitudini.  Un vino che, a dispetto del passato, sfrutti per la sua buona conservazione, quale compagno di viaggio nel tempo l’azoto e non l’ossigeno, un vino dunque che non sia necessariamente a base ossidativa, potrebbe anche esserlo, ma ripeto: non necessariamente, che non sia necessariamente fortificato, potrebbe anche esserlo, ma non esclusivamente, un vino Marsala dal colore giallo paglierino, magari con riflessi verdolini, propri di quei vini provenienti da uve raccolte leggermente in anticipo e per questo con moderate gradazioni alcoliche, elegante nei suoi profumi sottili che rimandano al pompelmo e alle pera, e con una nota sapida da far perdere la cognizione dei luoghi, al punto da rimandare al mare, nostra terra primigenia, un vino capace di sconfiggere da svegli il principio di non contraddizione, per cui il mare e la terra saranno almeno in un bicchiere e,  almeno per un istante, la stessa cosa, un vino di mare. Qualcosa che non divida più ma che unisca.  Un vino, nuovamente da amare, incondizionatamente.

*titolare delle Cantine Rallo di Marsala