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Articoli sul Marsala

Sergio Soavi “Marsala, vendite in picchiata”

13 Maggio 2010
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L’INTERVISTA

Per Sergio Soavi, responsabile Coop Italia per i prodotti tipici “è un vino che agonizza sugli scaffali, colpa di un disciplinare che va cambiato”. E poi c’è anche “la cannibalizzazione di malvasie e passiti”. “Il rilancio? Io farei così…”

“Marsala,
vendite in picchiata”

“Un prodotto vecchio, che agonizza sugli scaffali”, questo lo stato del Marsala raccontato da Sergio Soavi, responsabile Coop Italia per i prodotti tipici. Il quadro fornito dal manager è piuttosto  pessimistico. Il termometro ne sono le vendite di quantitativi che rimangono blindati senza incrementare,  anzi sono in forte calo. Per il manager questo vino risentirebbe il peso della sua storicità, apprezzata solo dalle vecchie generazioni, mentre le nuove non la riconoscono e si orientano su altri vini liquorosi più facili da consumare. L’immagine svilita del Marsala Soavi non la imputa però all’uso che se ne fa come aromatizzante per prodotti alimentari industriali. Le cause le individua in un disciplinare che ha maglie troppo larghe, nella mancanza di comunicazione del prodotto, nella modalità di consumo di nicchia delle tipologie più pregiate che escluderebbe il consumatore medio. Ma il fenomeno che ultimamente starebbe sempre di più oscurando il  brand Marsala è il fenomeno di cannibalizzazione per mano dei vini liquorosi, come il Passito o la Malvasia. Immessi talvolta nel mercato dai produttori stessi del Marsala.

Come sta il Marsala sullo scaffale?
“E’ un prodotto che ha perso credibilità, di cui si ricordano i nostri genitori. La situazione del Marsala è difficile. Abbiamo provato a dividere il prodotto che viene utilizzato per cucinare nel settore vini da pasto, accanto ad altre tipologie usate per aromatizzare come Vermouth, Chermes, Amaretto. Le tipologie Superiore, Vergine, Soleras li abbiamo invece accostati, nella cantina, ai grandi vini da dessert. Un modo per informare il consumatore rispetto all’utilizzo che si può fare del Marsala. Ma questa comunicazione non basta. Anche se c’è il consumatore intenditore che apprezza le tipologie pregiate, il problema dal punto di vista del mercato rimane. Il fatto è che l’immagine del vino è oramai svilita.  Le vendite parlano chiaro sullo stato di agonia che sta vivendo.  Sono fissate su determinati quantitativi che registrano un calo progressivo.  Abbiamo cercato di introdurre anche formati diversi per facilitare l’acquisto, ma il prodotto utilizza male il proprio nome.  Sui prodotti di nicchia ci sono vendite inferiori ma che sono di maggiore gratificazione per i margini e gli incassi che ne derivano, dall’altra parte, le tipologie meno pregiate, rimangono prodotti che non crescono,  anche se ci sono periodi dell’anno, in cui ha promozioni di tipo nazionale. Nessuna delle due macro categorie vive un buon momento, anche se abbiamo stimato che quelle comunque più richieste dal consumatore è la tipologia Fine. Se poi pensiamo all’importanza di questo vino che non viene percepita, in questo momento in cui si celebra l’Unità d’Italia, che proviene da un luogo importantissimo dal punto di vista storico e geografico, è un vero peccato. Si sarebbe potuto approfittare del momento per rilanciare un’immagine nuova. Un po’ la stessa sorte la sta vivendo l’Asti, altro vino che racconta questo pezzo di storia d’Italia”.

A chi imputare questa caduta di immagine?
“Intanto dobbiamo considerare il successo che stanno riscontrando altri vini con  caratteristiche diverse anche se per certi aspetti confrontabili con il Marsala. Parlo dei passiti o della malvasia. Si è spostata l’attenzione dal Marsala verso queste categorie sempre proveniente dalla Sicilia e prodotta da coloro che fanno anche il Marsala. Stiamo assistendo ad una sorta di cannibalizzazione. E poi il fardello della storicità invece di diventare un valore aggiunto è diventato un limite. Il Marsala veniva associato alla Targa Florio, per esempio, così lo ricordano i miei genitori, il problema è che molte persone sono rimaste lì. Negli ultimi quindici anni il Marsala ha subito poi anche una rimozione. C’è stato il boom di prodotti potenzialmente sostitutivi.  Alcolici da aperitivo, ma anche vini aromatici, vini secchi come il prosecco. L’enologia ha prodotto nella categoria vini da dessert,  referenze che prima non c’erano e lo spettro dei possibili utilizzi ha dato al consumatore l’imbarazzo della scelta”.

Quindi il fatto che il Marsala si possa trovare nella Simmenthal non avrebbe contribuito negativamente?
“La Simmenthal non fa nulla di criminale. Stiamo puntando il dito verso la luna e invece di guardare la luna guardiamo il dito. Il problema è un altro. Il problema è che la produzione agricola è esagerata rispetto ai bisogni e si trovano soluzioni alla fine non giuste per chi vuole bere un vino di qualità”.

Che si dovrebbe fare secondo lei?
“Sono gli uomini che sono padroni del loro destino. Quelli che producono Marsala dovrebbero  stringere accordi tra di loro per alzare la qualità del prodotto. Modificare il disciplinare di produzione in vista di questa qualità  e poi raccontare, comunicare al mondo questa decisione. Bisogna che si stringano le maglie di questo disciplinare. La presenza di tutte queste tipologie, questo modo di salvaguardare il prodotto non arriva al consumatore, non serve a nulla. Bisogna fare chiarezza, restringere questa gabbia. Sarebbe auspicabile. Però bisogna tenere in conto un’altra cosa, e bisogna stare attenti. Se si fanno sparire dal mercato tutti questi Marsala, cosa faranno coloro che lavorano per questo prodotto che garantisce loro uno stipendio? Non conosco la realtà agricola delle zone, ma bisognerebbe capire che redditività le famiglie traggono dalla coltivazione e produzione del Marsala. Non si possono mandare sul lastrico. Invece bisogna dare loro un’alternativa. E questo lo devono fare i grandi produttori. Su questi volumi di produzione certo non si possono fare discorsi di nicchia”.

Quali alternative allora?
“Se le tipologie base servono a garantire volumi alle aziende, bisogna rilanciare anche quelli più pregiati, avvicinarli ai giovani. Come viene consumato ora questo prodotto, in abbinamento a determinati formaggi o con il cioccolato, è una pratica troppo rara e  vetusta. Per esempio si potrebbe cavalcare questa moda del vintage. Rilanciare alcuni modi di consumo che abbiamo accantonato. Poi il prodotto va comunicato, ma sotto tutti i punti di vista. Non è sufficiente parlare di tradizione, non funziona. Invece bisogna comunicare la qualità, l’autenticità del prodotto e proporlo in modo più friendly”.

Diamo una speranza allora a questo vino?
“Rispondo con questi tre capisaldi che si dovrebbero seguire. Prima di tutto bisogna farsi delle domande, chiedersi se tutto  questo ha senso. Poi vedere se questi cambiamenti siano condivisi dai produttori. E se sì, costruire un piano di comunicazione e di racconto su tutti i livelli. Se si seguono questi tre capisaldi si possono conquistare nuovi consumatori. E quindi un futuro potrebbe esserci”. 

Manuela Laiacona