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Scenari

Export olio, i dazi Usa spaventano meno del vino. “Chi punta alla qualità è disposto a pagare di più”

26 Luglio 2025
Da sinistra Andrea Gentili, David Granieri, Fabrizio Filippi e Mario Terrasi Da sinistra Andrea Gentili, David Granieri, Fabrizio Filippi e Mario Terrasi

Parlano produttori e presidenti di consorzi: “Il vero problema è far comprendere all’estero un extravergine buono da uno non buono”. E intanto le esportazioni volano: +45% di valore l’anno scorso rispetto al 2023

I numeri più recenti sull’export dell’olio li ha elaborati l’Ice (l’Istituto per il commercio estero) e parlano di un mercato in crescita: 3 miliardi di export nel 2024, +45% sul 2023 (che già chiudeva a +15% sul 2022) e +57% sul 2019 che rappresenta, insieme al vino, una delle voci più “pesanti” dell’export agroalimentare italiano. E il tutto nonostante la produzione sia leggermente diminuita nel corso degli anni e i prezzi aumentati: l’olio italiano piace e “tiene” i mercati. Ma adesso i dazi promessi dal presidente degli Usa Donald Trump potrebbero fermare questa “corsa”.

A sostegno del comparto, invece, ci sono le caratteristiche nutraceutiche e la qualità del prodotto che oggi è sempre maggiormente riconosciuta a livello internazionale e che conquista anche nuovi mercati, non tradizionalmente legati alla cucina mediterranea. Tra bilanci da fare quadrare e mercati da conquistare questo è il viaggio attorno al mondo dell’olio. Intanto anche l’incertezza pesa. Secondo i dati della Coldiretti dopo un primo trimestre dell’anno dove le esportazioni agroalimentari hanno fatto segnare una crescita media in valore dell’11%, da aprile (primo mese di applicazione dei dazi aggiuntivi al 10%), si è passati al +1,3%, per poi scendere ulteriormente a maggio. Sempre secondo le elaborazioni di Coldiretti sono calate le esportazioni in valore per alcuni dei prodotti simbolo, dall’olio extravergine d’oliva (-17%) ai formaggi (-4%) fino al pomodoro trasformato (-17%), mentre sul fronte del vino si segnala un recupero del 3% rispetto al dato negativo di aprile.

“Siamo abbastanza prudenti. Gli Usa sono il primo mercato di riferimento extra Ue. E l’extravergine italiano conta molto su quel mercato perché ha una grande riconoscibilità” , spiega David Granieri titolare di un’azienda nel Lazio e presidente di Unaprol, un’Associazione di Organizzazione di Produttori del settore dell’olio di oliva e delle olive da tavola riconosciuta dal ministero dell’Agricoltura che rappresenta gli interessi di oltre 100 mila imprese agricole italiane.

Aggiunge Granieri: “Ricordiamo anche che la commissione Ue ha annunciato un taglio del 20% sulla Pac che vuole dire indebolire il modello agricolo europeo”. Serve capire quale sarà l’entità dei dazi. “Fino al 10% credo possano essere sostenibili”, aggiunge Granieri “ma serve anche capire quale sarà il break del prezzo per il quale il consumatore americano è disposto a pagare un prodotto 100% italiano”.

Il viaggio tra i produttori parte dall’Umbria e, in particolare, da Bevagna, in provincia di Perugia. Non solo terra di Sagrantino e di grandi vini ma anche di grandi oli. E parte da un produttore “anomalo”: Andrea Gentili con un passato (neanche troppo lontano) da trader finanziario e dal 2022 titolare dell’azienda umbra Gea 1916. Un uliveto di 17 ettari con 4.500 piante che erano state abbandonate, o quasi. Lo scorso anno la sua prima molitura (subito premiata dal Gambero Rosso) ed in preparazione la prima campagna per l’export.

“Sono ancora all’anno zero”, spiega Gentili, “il made in Italy è il simbolo dell’alta qualità e questo discorso vale soprattutto per l’olio”. La questione è di numeri: “un dazio al 30% mi porterebbe a non cercare gli Usa come primo mercato di riferimento, mentre il 10% potrebbe non incidere”.

Ma c’è anche la qualità.

Aggiunge Gentili: “Se si va a competere con un olio non di alta qualità ma molto più commerciale andiamo a sbattere la testa”, spiega, “ma non per i dazi ma per i costi di produzione che non sono paragonabili a quelli di altri paesi”.

Meno preoccupati in Puglia. “Al momento non preoccupa la situazione”, dicono dalla azienda Mimì di Modugno, in provincia di Bari gestita dai fratelli Donato e Michele Conserva con la moglie Giuditta, “siamo tra una campagna e l’altra e non possiamo fare previsioni al momento”. “Il prezzo di uscita di un prodotto di livello come il nostro extravergine viene acquistato da una utenza che fa poca differenza se paga 25 o 30 dollari. I dazi influiranno sui prodotti di consumo di massa e non sulle produzioni più piccole come l’olio”.

Anche per Mario Terrasi, alla guida della Igp Sicilia (regione da 162 mila ettari di superficie olivetata, terza dopo Puglia e Calabria), la questione dei dazi non è strettamente legata a quella dei prezzi. “Partiamo dal fatto che Usa e Germania sono i nostri mercati di sbocco più importanti, ma ricordiamo che negli ultimi anni c’è stato un aumento dei prezzi dovuto alla minore quantità di olio disponibile ma i consumi sono aumentati”.

Negli Usa, spiega ancora Terrasi: “una bottiglia di igp da mezzo litro viene venduta 25 dollari Con i dazi si arriverebbe a 28. Tre anni fa si vendeva a 18 euro ma nonostante questo non sono calati i consumi. Il mercato terrà questo altro step?”.

Non sembra il prezzo, invece, l’elemento di preoccupazione per Fabrizio Filippi alla guida del consorzio Igp Olio Toscano che raccoglie 9 mila associati. “Il nostro prodotto è un prodotto premium e ricercato e non andrà ad incidere un aumento dei prezzi legato al dazio”, spiega, “sull’olio toscano sarei abbastanza tranquillo, è un prodotto premium che comunque verrà comprato”.

Quello che preoccupa “oltre al clima di incertezza”, ancora Filippi, “è la debolezza del dollaro” che incide sul potere di acquisto dei consumatori americani specie nei confronti dei prodotti Ue.

Attenzione ai prezzi, dice invece Salvatore Cutrera produttore nel sud est della Sicilia, in provincia di Ragusa con base a Chiaramonte Gulfi, 150 ettari di uliveti sui Monti Iblei in regime biologico “questi dazi penalizzano tutto il settore che fa alta qualità perché incidono sul valore del bene”.

E l’aumento dei prezzi non vuole dire necessariamente aumento della qualità ma molto spesso scarsa quantità del prodotto, secondo le leggi dell’offerta e della domanda. “In Italia si produce poco e sempre meno”, dice, “per colpa del cambio climatico. Se si arriva a 12 euro al litro è perché c’è poco prodotto. Bisogna stare attenti a valutare il comparto olio”.

Ma è il clima di incertezza che confonde i produttori.

“Conviene ancora puntare sugli Usa?”, si domanda Gentili all’esordio sui mercati esteri. “Gli Stati Uniti sono in fondo alla lista dei paesi più affidabili. In che direzione andare? L’Asia è il territorio più interessante dove le politiche economiche sono più stabili”.

“Ci sono mercati dove si può ancora migliorare” conferma Terrasi, “penso a Cina, Est Europeo o Giappone dove già stiamo avendo dei buoni risultati. Sarà un lavoro che ci terrà impegnati per anni, ma i consumi mondiali aumentano e molti territori iniziano ad apprezzare la qualità dell’olio siciliano con le sue caratteristiche nutraceutiche. Si può crescere ancora in prospettiva positiva nonostante i dazi”.

Quella di differenziare è una scelta che ha bisogno dei suoi tempi: “Noi siamo esposti sugli Usa per circa il 10% del fatturato”, spiega Cutrera, “dieci anni fa abbiamo deciso di puntare su altri paesi ed è stata una scelta buona”.

“Un mercato”, continua ancora Granieri di Unaprol “non è un pulsante che si preme e si accende. Ci vogliono anni per aprire nuovi mercati ed è un processo che non è facile o scontato”. L’Asia? “Andiamo ad affrontare culture che nel caso dell’olio si devono abituare e si devono predisporre. Hanno un interesse, ma un conto è avere un interesse altro è spostare un mercato”.