di Dante Bonacina*
Pubblichiamo un testo di Dante Bonacina, amministratore delegato di Baglio di Pianetto apparso sul proprio profilo di LinkedIn dedicato al vino e a questa fase complessa che sta attraversando.
Viviamo un tempo che è il riflesso di scelte passate, di traiettorie deviate, di valori smarriti. È l’epoca delle conseguenze: quella in cui tutti noi raccogliamo ciò che abbiamo seminato, spesso senza consapevolezza, spesso contro natura. Abbiamo accelerato, consumato, semplificato. Abbiamo confuso progresso con profitto, velocità con valore, quantità con qualità. E ora ci troviamo davanti a un bivio esistenziale: quello tra il recupero del senso — e spesso del buon senso — e il silenzio della responsabilità.
Il mondo del vino, da sempre specchio dell’uomo e della civiltà, vive oggi la sua più profonda crisi di identità. Non è solo il calo dei consumi, il cambiamento climatico, la saturazione dei mercati o gli alert sulla salute. È qualcosa di più sottile e inquietante: la perdita del significato, del motivo di esistere. Il vino, che per millenni ha raccontato storie, territori, famiglie, stagioni, avvicinato persone, generazioni, culture. Il vino che Platone descriveva come fluido capace di sciogliere le rigidità dell’animo, di favorire il dialogo, la piacevolezza, la relazione, oggi rischia di diventare solo un prodotto: un codice a barre, un algoritmo di marketing. Paghiamo l’illusione che il vino potesse essere eterno senza essere vero. Che potesse parlare a tutti senza parlare a qualcuno. Che potesse vendersi senza raccontarsi. Paghiamo scelte irresponsabili. Abbiamo piantato vigne ovunque, dimenticando la vocazione dei luoghi. Abbiamo snaturato terroir, rincorso varietà nate in laboratorio, omologato profili sensoriali. E abbiamo accettato, senza dibattito, che si possa chiamare “vino” un liquido dealcolato. Frutto della tecnica, certo, ma privo di anima, di verità, di quella tensione millenaria tra natura e cultura che fa del vino ciò che è.
Non è l’alcol il problema, lo dimostrano le crescite solide dei superalcolici in molti mercati, ma l’assenza di senso, di racconto, di desiderabilità.
L’immobilismo a livello istituzionale e lo sbando di chi dovrebbe guidare, proteggere, ispirare i produttori è sconcertante. Nel vino la politica non è più la “tecnica regia”, non decide più se e perché si devono fare le cose; guarda ad altri interessi, quelli della tecnica e del mero profitto che non hanno scopi di lungo periodo se non il proprio auto-potenziamento, invece del progresso.
Le Guide non “guidano” più. Le scuole di sommelier sfornano professionisti che, troppo spesso, scivolano in un autocompiacimento sterile, in un linguaggio autoreferenziale che allontana proprio chi dovrebbe essere al centro del sistema: il consumatore. E gli stessi produttori, quelli che fino a ieri si definivano “vigneron”, sembrano sospesi in un pericoloso gioco di equilibrismo. Da un lato il desiderio di ribadire il significato profondo del fare vino, dall’altro la tentazione di trasformarsi in semplici “trasformatori” di surrogati imbevibili e lontani da quel modello di sostenibilità tanto urlato.
Avete mai provato a spiegare con la stessa trasparenza oggi giustamente richiesta al mondo del vino, cosa significa un processo di dealcolazione? Cosa comporta, quali benefici, quali costi, quale impatto? Il vino dealcolato è un equivoco culturale. Abbiamo definito comunità, monumenti, luoghi come patrimoni dell’umanità. E oggi siamo disposti a rinnegare il vino semplicemente perché contiene una sostanza potenzialmente dannosa per la salute. Perché non lo sapevamo?
Respiriamo aria inquinata, ci nutriamo di cibo insicuro, rischiamo quotidianamente la nostra vita su strade, in volo, semplicemente vivendo in un costante equilibrio tra rischi e benefici di ciò che consapevolmente facciamo, mangiamo e beviamo.
Lasciateci questa libertà, perché è l’unico elemento che realmente dipende da noi e dalle nostre scelte. E non può essere delegato né sterilizzato.
Il vino ha bisogno di pensiero, non solo di prodotto. C’è bisogno di un ritorno a quell’integrità capace di combattere l’impoverimento silenzioso che sta attraversando questo settore. Non riguarda solo le vendite, i consumi, le rese per ettaro. Riguarda le persone, i professionisti, i giornalisti, gli influencer, gli intermediari. Riguarda la capacità di costruire visioni condivise, la capacità di immaginare, di interrogarsi. Troppo spesso si parla di vino dimenticando che il vino è soprattutto un atto culturale.
Ma il vino ha bisogno di pensiero. Ha bisogno di linguaggi nuovi, di contaminazioni, di ponti tra generazioni e discipline. Ha bisogno di persone che sappiano scrivere con profondità, non solo con tecnicismi. Di sommelier che sappiano ascoltare, non solo descrivere o giudicare. Di produttori che abbiano il coraggio di fare scelte scomode, ma vere. Perché senza pensiero, il vino si svuota. E senza cultura, il vino non è più vino: è solo un liquido che cerca di piacere.
C’è ancora tempo per tornare alla terra, al gesto, alla lentezza, al piacere della condivisione, alla piacevolezza delle relazioni. Tempo per ridare anche al vino il valore della cura, della memoria, della responsabilità. Perché, se questa è davvero l’epoca delle conseguenze, allora è anche l’epoca delle scelte consapevoli. E il vino, come l’uomo, può ancora scegliere chi essere.
*amministratore delegato dell’azienda Baglio di Pianetto