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L'intervista

Ugo Alciati: “Cucinare oggi? Si cerca semplicità ma è una cosa difficile. Nei nostri piatti al massimo 4 ingredienti e vi spiego perché…”

13 Settembre 2025
Agnolotti di Lidia. A destra lo chef Ugo Alciati del Ristorante Da Guido a Serralunga d’Alba Agnolotti di Lidia. A destra lo chef Ugo Alciati del Ristorante Da Guido a Serralunga d’Alba

Lo chef del ristorante Da Guido a Serralunga d’Alba si racconta: “Non mi piace il termine fine dining. Fontanafredda è un posto meraviglioso. Nelle Langhe un leggero calo di clienti, Torino soffre di più. Noi gli unici stellati piemontesi a fare cucina di territorio”

È un’istituzione della cucina italiana, Guido Ristorante, aperto nel lontano 1961 da Lidia e Guido Alciati, di professione rappresentante, dopo avere tentato la fortuna in un paio di locali alla mano e girato i più bravi d’Italia. A quel punto la giovane coppia allestì in un seminterrato di Costigliole d’Asti un ristorante di lusso, al quale si poteva sedere solo su prenotazione per consumare menu fissi.

Passate le difficoltà iniziali, negli anni ’70 era il primo due stelle piemontese. In sala Guido, cui nel tempo si unirono i figli Piero e Andrea; in cucina Lidia con la madre Pierina. La loro era una proposta tipica langarola, di estrazione tanto contadina che borghese, ma alleggerita e modernizzata, fondata sul mercato e sul territorio. Vedi il vitello tonnato rosa al cuore, oggi di uso comune. Perché “In cucina non c’è nulla da inventare, ma si può essere rivoluzionari facendo meglio il consueto”, era il motto (attualissimo) di Guido.

Oggi il testimone è nelle mani di Ugo, il terzo figlio, che dal 2013 cucina al Villaggio Narrante di Fontanafredda a Serralunga d’Alba. Entrato in cucina appena quindicenne dalle porte della pasticceria, continua a interpretare i classici e la filosofia della casa, che vanta oltre 50 anni di stella Michelin. Per esempio i leggendari agnolotti di Lidia, la cui asticella non ha smesso di spostarsi verso l’alto nella scelta delle materie prime e nella messa a fuoco della ricetta. “Il ripieno inizialmente era composto in modo classico dai tre arrosti (vitello, maiale e coniglio). Poi mi sono reso conto che il coniglio non apportava qualità e ci siamo riprogrammati: oggi è solo vitello, coscia e stinco, e maiale, salsiccia e carré. Con il sugo recuperato dallo stinco che ci serve per condire. Le stesse dimensioni sono cambiate: una volta il peso era di 3 grammi, oggi di 10. Perché l’agnolotto è nato come piatto di recupero della domenica negli anni duri del dopoguerra. Tanto che non esiste una ricetta codificata, avendo ogni famiglia disponibilità diverse, mentre oggi si può fare un ripieno dedicato. Un tempo la proporzione era del 60% di pasta per il 40% di ripieno, oggi è l’inverso. Abbiamo tolto anche le spezie, aglio e cipolla, per concentrarci ed esaltare il gusto dell’ingrediente principale”.

Dopo il lockdown è spuntata anche una verticale di agnolotti: i plin della nonna con i 3 arrosti e la noce moscata nel tovagliolo di lino, i quadrati di Asti ripieni al 50% di verdure e al 50% di carne con ragù di salsiccia e il classico agnolotto di Lidia con burro fuso e sugo d’arrosto. Più una versione hard che viene servita agli audaci: gli agnolotti nel tovagliolo bagnati col Barbera, ricordo di quando il capofamiglia li tuffava nel bicchiere.

Ma l’agnolotto del futuro potrebbe essere ulteriormente alleggerito, perché continua l’evoluzione verso la semplicità. La lezione è quella di Jean Cocteau: “La tradizione è un movimento perpetuo. Essa avanza, cambia, vive. La tradizione vivente si manifesta dappertutto. Sforzatevi di mantenerla alla maniera della vostra epoca”.

Ugo, questo cammino della cucina prosegue?
Le evoluzioni che abbiamo sviluppato in questi anni riguardano principalmente le materie del territorio. Nel corso degli anni se possibile sono diventate sempre più autoprodotte, mentre il resto è stato selezionato con maggior rigore, lavorando a volte conto terzi, ovvero istruendo i fornitori su come procedere meglio. A questo proposito abbiamo stilato un manifesto con un marchio di fabbrica di quella che è la nostra filosofia, chiamato “Tempo permettendo”. Poi ci sono piatti che non discendono dalla tradizione piemontese, ma da questi prodotti selezionati, senza mai venire meno a un principio di coerenza assoluta, visto che si tratta di mani piemontesi che lavorano materie prime pensate per piatti piemontesi. Due che funzionano bene da tanto tempo sono il riso mantecato con zucca, ricotta e acciughe, tutti prodotti che non esistevano in un piatto tradizionale, e la faraona con mousse di fegatini e riduzione al Timorasso, preparata con volatili eccezionali, allevati in Piemonte allo stato brado da un piccolo produttore, Alessandro Varesio, e abbinati a un vino del territorio. Quindi un piatto diverso, concepito per modernizzare un’idea di ricetta piemontese. Tutto circolare e locale, tranne pepe e sale. Ma sul pepe ci stiamo lavorando…

Mentre voi avanzavate sul vostro cammino, la cucina tutt’intorno cambiava. Vi ha dato ragione alla fine?
Cucino da oltre 40 anni. Ricordo una conversazione con mio fratello Piero alla fine della pandemia, lui diceva che era cambiato il mondo, io ho risposto che dovevamo continuare a proporre quello che sapevamo fare da 60 anni, apportando piccole modifiche ai piatti. “Secondo me passa ancora qualche anno e senza fare niente, rischiamo di diventare di moda”. E direi che negli anni la cucina molecolare, i fumi e le schiume sono spariti, mentre sta tornando la voglia di semplicità, che è la cosa più difficile possibile, perché non hai margini di errore. I nostri piatti sono così: al massino tre o quattro ingredienti, tutti cruciali, mentre anni fa c’era la gara a chi infilava più cose e il titolo del piatto era diventato letteratura, poi non capivi cosa stavi mangiando. Oggi si sta tornando a una semplificazione e in un certo senso è quello che abbiamo sempre voluto essere.

Gianfranco Bolognesi della Frasca diceva che non esistono più le vere trattorie e che il fine dining deve farsi carico della tradizione. È il vostro caso?
Per noi a fare la differenza sono i dettagli, che in uno stile da trattoria si perdono, perché non hai né il personale sufficiente né la possibilità di fare tante prove. Per anni, ad esempio, abbiamo lavorato sulla pasta degli agnolotti, in modo da farli più grandi senza che si rompessero. Ma non mi piace il termine fine dining: siamo un ristorante che cerca di fare determinate cose meglio di tutti, con un servizio diverso e una carta dei vini di livello. Perché per fare arrivare un cliente, bisogna superare tanti bivi. Alla fine il ristorante è vuoto oppure pieno e questo dice se sta facendo un buon lavoro. Quando poi la gente decide di tornare con gli amici, significa che ha lasciato il segno. Noi non dobbiamo fare degli agnolotti diversi, ma i migliori possibili. La gente deve sceglierci quando ha voglia di mangiarli. Ogni giorno cerchiamo un metodo per migliorarli o portarli a un livello differente, anche con un impiattato diverso. Ed è la lezione di mio padre, per cui non avevamo clienti, ma ospiti.

A proposito di bivi, non è un momento facile per la ristorazione…
Nelle Langhe si è avvertito un leggero calo, diciamo che si è fermata la crescita, come è fisiologico che accada.

Torino soffre di più?
Le Langhe sono una destinazione enogastronomica, la gente viene per il cibo e per il vino, anche se è in corso un tentativo di destagionalizzazione nei mesi più caldi e più freddi, con un’ipotesi di turismo naturalistico e ciclistico. Torino è una città con un milione di abitanti, quindi avrebbe un bacino potenziale di tutto rispetto, ma ha un turismo più museale e negli ultimi anni i ristoranti sono nati come le margherite, senza riuscire sempre a convincere. Altre chiusure sono dettate dal fatto che tutti vogliono aprire qui, è una calamita per i clienti e ci sono tante cantine che hanno rilevato locali in chiusura. Questo è un mondo dove non si guadagna lavorando poco, se avanza il 9-10% del fatturato è tanta roba. Ma quando manca la passione, la coperta diventa corta. Troppi giovani vogliono tutto e subito, senza fare sacrifici.

Lavorare a Fontanafredda vi aiuta?
È un posto meraviglioso, come Pollenzo. Costigliole aveva il problema estetico, perché il ristorante aveva sede in un palazzo moderno. Quindi quando è partito lo sviluppo delle Langhe su enogastronomia, tartufo e vini, mio padre ha subito iniziato a muoversi per il trasloco, senza mai riuscirci. E devo dire che ci troviamo molto bene nella villa di Vittorio Emanuele II e della bella Rosina, è una casa con tante stanze e questa atmosfera domestica si percepisce.

Guido è un modello per superare la crisi della ristorazione?
Lo spero, ma non voglio essere presuntuoso. Di sicuro abbiamo incontrato i favori della clientela. Siamo rimasti gli unici stellati piemontesi che fanno solo cucina del territorio, non necessariamente a chilometro zero, senza mai aprire al pesce. Da noi solo trota della Val Chiusella e acciughe sotto sale, che qui si mettono ovunque tranne che nel bunet. Mentre le carote per esempio non crescono, come i cardi, che prendo a 70 chilometri da qui a Nizza Monferrato. Li ritiro io, come le trote. Ogni volta una mezza giornata. Lavoriamo molto con i nostri orti: abbiamo dato i terreni a ragazzi che coltivano per noi e coprono il 100% del fabbisogno. Ma oggi il clima è pazzerello, è un lavoro giornaliero perché basta un temporale per cambiare la ricetta. Tanto che scriviamo genericamente “le verdure dei nostri orti”. Sono passate due generazioni da quando abbiamo smesso di raccontare queste cose, i nipoti che portano i loro genitori una volta venivano coi nonni. Per questo abbiamo pensato che un manifesto fosse più facile da capire: delinea un sistema pulito, ecosostenibile, senza sprechi e senza troppa carta, anche se in questi tempi di intolleranze e allergie il menu unico, con cui siamo nati, sarebbe troppo tranchant.