Uno spettro si aggira per l’Europa… Il fantasma del Grande Belgio brassicolo: quel modo di fare e bere birra che ha esercitato il proprio magistero di coltura e di costume sul nostro continente (e in parte sul mondo) tra anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, per poi imboccare – sotto la spinta di mode più attuali, su tutte quella legata ai luppoli di nuova generazione – la strada di un declino dal quale, finora, non ha saputo risollevarsi.
Eppure (come l’ultimo giapponese a Okinawa o il villaggio di Asterix e Obelix nella Gallia soggiogata a Roma), le tipologie portabandiera della scuola sviluppatasi tra Fiandre e Vallonia, soffrono, sì, ma non demordono; subiscono l’onta della marginalità, ma resistono con il coltello tra i denti. E ciclicamente c’è chi scommette su una loro riscossa: magari a partire proprio dallo scacchiere italiano.
Sarà l’anno prossimo quello della volta buona? Il pronostico è, in questo caso, assai azzardato. Perciò ce ne asteniamo, assumendo ugualmente l’onere della domanda, ma attraverso una strategia diversa. Di tipo cronistico, diciamo: limitandoci a documentare come, ai primi del settembre scorso, il Villaggio della Birra (il decano dei festival birrari italiani, giunto ormai, dal suo esordio nel 2006, alla diciannovesima edizione) abbia offerto uno spaccato tale da evidenziare come minimo la volontà, da parte di più di un marchio artigianale, in Italia come in Europa, di provare a farla partire, quella controffensiva: di provare a sollecitarlo, il mercato, nel tentativo di riaccenderne la sopita passione per la scuola belga e le sue tipologie. In tal senso abbiamo raccolto, di seguito, alcuni esempi tra quelli apparsi più significativi, in termini sia di progetto sia di qualità nella bevuta.
Scavallonia (Birrificio MC 77)
Nel corso degli ultimi mesi i ragazzi marchigiani di MC 77 (a Serrapetrona, in provincia di Macerata) hanno aggiunto in gamma addirittura due Belgian Ales: una Blond, la Ned Fiandre (da 5 gradi); e una Pale, la Scavallonia (da 6 gradi), che è stata l’oggetto del nostro incontro diretto. Un incontro decisamente interessante; di cui riportiamo gli esiti, cominciando con il declinare, della birra, le generalità produttive. In ammostamento abbiamo malti Pils e (una punta) Monaco; in luppolatura, gettate di Brewers Gold, Mittelfruh e Saaz Shine; in tino, un lievito selezionato per lo stile, di natura non diastatica. Al tirare delle somme, il colore è dorato carico, l’aspetto leggermente velato, la schiuma bianca; gli aromi intrecciano spunti di pasta frolla, miele, erba tagliata, fiori di tiglio e sambuco, banana, ananas e pepe; il palato regala una sorsata corsaiola, secca, ben carbonata e altrettanto amaricata, ma priva di astringenze.
Karasciò (Schigibier)
Altra birra giovane, la Karasciò targata Schigibier: d’altra parte è la stessa scuderia d’appartenenza ad aver debuttato giusto la scorsa primavera, grazie all’iniziativa di Luigi D’Amelio, al suo secondo inizio dopo aver chiuso il capitolo Extraomnes. La carta d’identità della birra recita quanto segue. Stile: Belgian Blond Ale; gradi alcolici: 4.9; colore: dorato; segni particolari: omogenea sospensione e bordature di schiuma bianca; profilo genetico: malto Pils, lievito Trappist, luppoli EKG e Centennial (an che in dry hopping). Riposto il portadocumenti, è il momento del corpo a corpo. Fase uno, il profumo cattura: panificato dolce a breve cottura, pera matura, chiodi di garofano, fiori di sambuco; fase due, la bocca seduce: bevuta saettante, bollicina estroversa, chiusura asciutta asciutta (la ripetizione non è un refuso), nervatura amaricante incisiva.
Little Nelson (Wide Street Brewing Company)
Un’enclave belga nell’Irlanda oggi contesa tra classicità d’oltremanica e modernismo nuovomondista? Ebbene sì: a Ballymahon (contea di Longford), dove si trova la Wide Street Brewing Company. Il cui campionario – ispirato in buona parte agli stili fiamminghi e valloni – presenta, tra le altre referenze, questa Little Nelson: una Saison Table (3.7 i gradi alcolici) ottenuta da malti Pale e di frumento; da una luppolatura con in prima fila appunto il Nelson Sauvin (anche in dry hopping); da una fermentazione affidata alla fame diastatica di un Bel Saison. Ne esce un cammeo color paglierino, di aspetto velato e ampia schiuma bianca; la cui piattaforma aromatica assembla note di panificato chiaro, erba tagliata, banana e ananas, chiodi di garofano e pepe bianco, fiori di sambuco e bosso; il tutto a preludio di una bevuta trascinante: tesa, carbonata, secca e dal consapevole taglio amaro.
Ecuba (Birrificio La Diana)
Torniamo in Italia, per la precisione in Toscana: e ancor più esattamente in provincia di Siena. Perché a Isola d’Arbia il marchio La agricolo La Diana si cimenta in una Gruyt Beer su base Belgian Blond: la Ecuba, prodotta con una speziatura a dir poco variopinta, in cui rientrano coriandolo, pepe nero, scorze d’arancia sia amara sia dolce, più l’inusuale tarassaco. Un pacchetto aromatico consistente, insomma: chiamato a inquadrarsi in un telaio costituito da un impasto secco di malti Pils, Monaco e Cara Pils; da una luppolatura che include Magnum in bollitura, più Hersbrucker e Saaz in aroma; e da un processo fermentativo consegnato nelle mani di un fidato ceppo selezionato per la tipologia. Risultato? Colore tra dorato carico e prime ambrature, trama visiva velata, una guarnitura copiosa (benché non granitica) di schiuma avorio; profumi caldi e ventilati insieme, nei quali, oltre agli apporti degli ingredienti in aggiunta diretta, troviamo accenni di frolla, miele, chiodi di garofano, mela e pera mature; infine una condotta gustativa sorprendente, sia per il non facile equilibrio dolceamaro (sebbene sia chiara la trazione bitter) sia per l’inesistenza di un qualsiasi accenno alcolico, a dispetto dei suoi 6 gradi e mezzo.
Saison (Birra del Carrobiolo)
Decisamente ecumenico nell’abbracciare varie e diverse impronte stilistiche, il marchio monzese Carrobiolo non manca, nel proprio listino, di proporre referenze di stampo belga. Ad esempio questa Saison, presente tra l’altro anche in versione brettata. L’edizione, diciamo, ordinaria, nasce da una miscela secca di malti Pils e Monaco II, più un 20% di frumento crudo locale (della Cascina Rampina, a Monticello Brianza); poi in luppolatura abbiamo Aurora (di Božnar farm) e Amarillo; mentre in tino, il metabolismo è quello di un ceppo selezionato: recuperato per l’esattezza da una bottiglia di Saison d’épeautre (storica etichetta della scuderia vallona Blaugies) e ripropagato in laboratorio. In mescita, il colore è dorato carico, la velatura omogenea, la schiuma ampia e frondosa; le narici accolgono argomenti quali crosta di pane ben imbiondita, frutta matura (albicocca, pera e banana), fiori (tiglio, malva, sambuco), spezie (vaniglia, pepe, chiodo); la sorsata è atletica spedita, in barba ai 6 gradi alcolici, grazie alle sue doti ginniche: corpo leggero, bolla vivace, chiusura secca, nitida dorsale amaricante.
Villaggio della Birra
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