Il 2024 è il compleanno di uno dei vini più rappresentativi della Sicilia moderna del vino: lo Chardonnay Planeta compie trent’anni, un vino per l’epoca rivoluzionario che ha fatto parlare molto di sé. La prima annata? Il 1995.
Lo Chardonnay, sia chiaro, non è un vitigno come gli altri. È, ed è stato, uno strumento e, a tratti, persino una provocazione. Portare uno Chardonnay in Sicilia, negli anni Novanta, significava assumersi dei rischi ma, prima di ogni altra cosa, affermare che l’isola poteva dialogare alla pari con il mondo del vino contemporaneo, senza chiedere permesso. La degustazione guidata da Daniele Cernilli e Alessio Planeta segue proprio questa traiettoria: non una celebrazione lineare, ma una lettura critica di come sia nato uno stile, di come si sia affermato e di cosa oggi rappresenti.
Alessio Planeta e Daniele Cernilli (ds)
All’inizio degli anni Novanta il vino siciliano non era ancora chiaramente definibile. Oltre il 60% del vino prodotto sull’isola era venduto come sfuso e mancava un’idea precisa di mercato. Alcuni importanti produttori esistevano già, tra questi Tasca d’Almerita e Corvo, ma oltre a loro le realtà strutturate erano poche. Tra le rare presenze attive, a Menfi operava una cantina cooperativa, la Settesoli, presieduta da Diego Planeta. Sempre nei primi anni Novanta lo stesso presidente chiamò in Sicilia un enologo piemontese geniale, che lavorava in Australia e in Toscana presso Frescobaldi. Si chiamava Carlo Corino e prese in mano la produzione. Parallelamente nacque la nuova realtà di famiglia, denominata Planeta, nella quale divennero protagonisti i giovani: la figlia Francesca e i nipoti Alessio e Santi. Tra le etichette rilasciate, il primato spetta allo Chardonnay, di fatto il vino più celebrato. La sua era una versione totalmente opposta alle tradizioni borgognone, in particolare a quelle di Montrachet. Al contrario, si avvicinava maggiormente allo stile californiano, come Grgich o Kistler.
La concezione era moderna: quella di un vino importante, di grande energia, in contrapposizione con i vini allora prodotti sull’isola. “In Sicilia il vino era un prodotto povero per gente povera” (Cernilli), e questo modo di interpretare il vino attraverso lo Chardonnay era del tutto inedito per il pubblico e non sembrava ispirato da alcun precedente.
Ciò premesso, lo Chardonnay risulta anacronistico nel passato, per l’uso del legno sia in fermentazione sia in affinamento, e anacronistico oggi, per l’impiego di vitigni francesi (A. Planeta), perché tutto ciò che non è autoctono è oggi difficilmente accettato. Di seguito la degustazione nell’ambito di Taormina Gourmet on Tour, l’evento organizzato da Cronache di Gusto.
Chardonnay 2010
Il primo calice, vendemmia 2010, arriva subito come una dichiarazione d’intenti. L’enologo è ormai Alessio Planeta, non più Corino, scomparso nel 2007. Il colore tradisce l’epoca: dorato, anzi oro antico, profondo. Non è solo il tempo nel bicchiere, è una scelta culturale che affiora. Il profilo è mediterraneo. L’uso del legno è evidente, ma non urlato: stratificato, frutto di una micro-ossigenazione allora considerata necessaria per dare complessità e statura internazionale a un bianco del Sud. Al naso emergono note evolute, calde, che parlano di maturità più che di stanchezza. In bocca sorprende l’equilibrio: l’acidità non è tagliente, non gioca sulla tensione nordica, ma su una sensazione più salmastra, quasi marina. Cernilli insiste su questo punto, distinguendo l’acido tartarico, che qui domina, dall’acido malico. È una chiave di lettura che aiuta a capire perché il vino, pur evoluto, non risulti amaro. L’evoluzione è presente, l’ossidazione anche, ma controllata e integrata. Il legno, inizialmente molto presente, ha perso l’aspetto preponderante: diventa timido e contribuisce a uno stile riconoscibile e identitario.
Chardonnay 2020
Il passaggio allo Chardonnay 2020 segna uno scarto netto, e non solo cronologico. È il vino di una fase diversa, in cui l’esperienza accumulata permette di sottrarre invece che aggiungere. Il legno c’è, ma non è protagonista, rispettoso della materia prima. I profumi sono definiti, più leggibili, meno sovraccarichi. In bocca il vino è più agile, più sciolto, con una dinamica che privilegia la bevibilità senza rinunciare alla profondità. Qui si avverte chiaramente quella che Cernilli definisce la “ricerca di eleganza” che caratterizza la produzione Planeta dopo il 2010. Non una rinuncia all’identità mediterranea, ma una sua traduzione più misurata. Anche il contesto pedoclimatico gioca un ruolo: il vento, la vicinanza al mare, la capacità di mantenere freschezza pur in un quadro climatico caldo emergono con maggiore chiarezza rispetto al passato.
Cometa 2020
Il Fiano Cometa entra in azienda come una deviazione necessaria, nella fase finale degli anni Novanta. Non è fuori tema, ma sposta il fuoco. Se lo Chardonnay è la bandiera, il progetto più evidente, Cometa è un’elaborazione ricercata su un vitigno del Sud Italia. Le acidità di questo vitigno originario della Campania sono generose; il vino segue una dimensione gustativa che ricorda un “sorbetto”. Il registro è forse più semplice, ma anche più preciso. Il frutto è nitido, la componente aromatica definita e la trama non cerca mai l’effetto. Nel bicchiere si percepisce un’interessante maturità stilistica: a distanza di qualche anno emergono note di pompelmo, pesca ed erbe mediterranee. Al palato dimostra una struttura minerale vibrante. Nel contesto della masterclass va letto non come una variante dello Chardonnay, ma come un capitolo parallelo: l’esperimento sul Fiano, nato con l’obiettivo di confrontarsi con i grandi bianchi mediterranei e mondiali, raggiunge con questa etichetta una piena maturità espressiva, valorizzando la mineralità che Menfi sa offrire.
Chardonnay 2023
Il ritorno al vitigno francese riporta la degustazione su un terreno più immediato. È un’annata complessa, segnata da condizioni climatiche non semplici, e questo si riflette in un vino che richiede attenzione. I profumi sono più trattenuti, meno espansivi, ma la struttura è solida. Cernilli accenna a come il 2023 sia stato un anno impegnativo un po’ ovunque, e questo Chardonnay sembra portarne le tracce senza subirle. È un vino in divenire, che oggi si mostra con una certa austerità, ma lascia intravedere margini di crescita.
Didacus Chardonnay 2023
Didacus (il vezzeggiativo che Vito, il padre di Diego Planeta, utilizzava per chiamarlo e che la famiglia ha voluto conservare come nome di questo vino speciale) rappresenta un altro momento di deviazione, forse il più interessante dal punto di vista concettuale. Qui lo Chardonnay diventa un pretesto per esplorare un’espressione diversa del territorio. Il profilo aromatico si sposta su note più esotiche, con richiami al frutto della passione e suggestioni che ricordano più il mondo del Semillon che quello classico dello Chardonnay francese. È un vino che parla chiaramente di luoghi e di clima. Cernilli sottolinea come un vitigno, una volta spostato dal suo contesto originario, possa assumere identità inattese. Didacus è esattamente questo: non una variazione stilistica, ma una mutazione espressiva. Non va letto in continuità con lo Chardonnay della linea principale, ma come un capitolo a parte che amplia il discorso. Il naso si sviluppa su note di frutta matura, agrumi e pesca, cui si affiancano sentori più complessi di frutta esotica. Emergono poi sfumature di nocciola tostata, fiori primaverili e spezie leggere. In bocca è strutturato, sostenuto da una freschezza ben calibrata. Finale lungo e sapido. Ambizioso.
Chardonnay 2024
Chiude il percorso la vendemmia 2024, ancora giovane, quasi in controluce. La freschezza è evidente, il profilo aromatico più lineare, la materia meno stratificata ma già leggibile. Si percepisce la direzione: meno intervento, maggiore centralità del frutto, una tensione che non cerca scorciatoie. Il profilo aromatico è immediato e nitido: frutta tropicale matura, agrumi e leggere note di vaniglia si intrecciano a richiami di miele e a una traccia minerale che dona slancio. Al palato si esprime attraverso una tessitura cremosa, bilanciata da un’acidità ben integrata che accompagna lo sviluppo del vino senza mai sovrastarlo. La struttura è solida, ma il registro resta improntato alla freschezza e alla chiarezza espressiva.
La masterclass si chiude senza retorica, come è giusto che sia. Non c’è l’idea di un punto d’arrivo, ma quella di un percorso consapevole. Cernilli, nel suo intervento finale, ricorda come il lavoro sul vino abbia senso solo se alimenta curiosità, se resta aperto al dubbio. È forse questa la lezione più interessante che emerge dal confronto: lo Chardonnay, in Sicilia, non è stato un atto di forza, ma un esercizio di ascolto.