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Le interviste della domenica

Camilla Lunelli racconta Ferrari (e non solo): il Maximum, l’Africa, le donne, il successo…

05 Luglio 2020
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di Alessandra Meldolesi

Outfit sportivo e sorriso d’ordinanza, nessuno direbbe che Camilla Lunelli, dietro una semplicità che non è solo apparente, sia con il fratello Alessandro e i cugini Matteo e Marcello a capo di un mito d’oggi: le cantine Ferrari.

Geniali nel saper parlare a ogni segmento di mercato con la medesima affabilità. È di pochi giorni fa la notizia che l’azienda ha ricevuto il riconoscimento per il brand vinicolo più forte del 2020 secondo la ricerca Italy Wine Landscape 2020 di Wine intelligence, davanti a Berlucchi e Fontanafredda. Complice forse l’omonimia con un’altra eccellenza nostrana, che però è rossa e viaggia su quattro ruote. “In qualche caso può starci, magari perché il nome è più facile da ricordare per uno straniero. Quando sono all’estero e vedo un wine store, mi ci fiondo per capire il mercato. Negli Stati Uniti mi è capitato di chiedere uno spumante italiano e di vedermi proporre un frizzantino dolce a 4 dollari. Sono rimasta scottata. Ma il mystery shopping può risultare interessante, anche quando il campione non è rappresentativo”. Strategie di marketing alternative: il curriculum del resto è di tutto rispetto, la biografia niente affatto banale. Il ruolo che Camilla oggi ricopre, di direttrice della comunicazione e delle relazioni esterne, non è il frutto notarile di una pratica ereditaria, ma l’approdo di un percorso originale e profondo, che femminilizza un brand di tutti. E se lo Champagne è stato spesso une affaire de femmes, da una vedova all’altra, poiché solo quello stato civile infelice consentiva alle donne di assurgere a posizioni apicali, in Italia il metodo classico è rimasto perlopiù maschile.

Anche se la situazione va sfumando pian piano verso il rosa, puntualizza Camilla, che fra le altre cose è socia delle Donne del Vino dal 2004, anche se non ha mai ricoperto ruoli operativi. “Proprio oggi abbiamo una riunione su Zoom: è anche l’occasione per incontrare produttori di altre denominazioni e dare un segno a livello regionale. Il Trentodoc sta cambiando: abbiamo la fortuna di avere una splendida direttrice all’Istituto, Sabrina Schench, che ci mette il cuore; poi ci sono ragazze e signore in prima linea. Il nostro è un tessuto singolare: affianca una grande realtà privata, la nostra; alcune cantine sociali dal management prevalentemente maschile e tante aziende familiari, dove il lavoro è di squadra fra fratello e sorella, madre e figlia. Sono certa che i talenti siano distribuiti in maniera equa fra i sessi, non abbiamo una marcia in più o in meno. Se le posizioni apicali sono occupate in maggioranza da uomini, significa che non si stanno valorizzando i talenti. Poi c’è un altro valore aggiunto: le donne possono avvicinare il mercato femminile, penso a una sommelier rispetto a consumatrici motivate, che magari nutrono un timore reverenziale. Per questo in Ferrari abbiamo incrementato la forza lavoro femminile, soprattutto nell’ambito marketing, comunicazione e amministrazione; meno nella produzione, tranne un’enologa. Penso anche a Manuela Savardi, la nostra nuova direttrice export”.

Come si è svolta la sua educazione sentimentale al vino?
“Non riesco a ricordare il primo sorso, perché il vino è qualcosa che c’è sempre stato, con grande equilibrio dal punto di vista del consumo. Nel senso che quando i ragazzi vengono avvicinati in maniera consapevole, si perde il gusto del proibito che porta alla trasgressione. Lo faccio anch’io con i miei figli. Quindi il goccino l’ho sempre assaggiato. Se penso alla mia infanzia, però, mi viene in mente soprattutto il mosto appena spremuto di chardonnay, fruttato e dolcissimo, che bevevamo in abbondanza. Ancora adesso me lo porto a casa. Papà seguiva la parte viticola in prima persona e mi piaceva accompagnarlo in campagna. Erano odori forti, anche perché mancavano i sistemi di areazione odierni. In casa c’era sempre un Ferrari in frigorifero, ma si beveva anche altro, le bottiglie scambiate con gli altri produttori o quelle scelte per capire. La passione di papà era il pinot nero fermo, vinificato in rosso. È stato uno dei primi vini con cui si è cimentato, una sfida anche in ottica Trentodoc. E il nostro Maso Montalto, per quanto esiguo nei quantitativi, è tuttora molto apprezzato. Nel campo delle bollicine invece il suo modello era il Krug, anche per una questione di rapporti personali”.

Lei però non è stata cresciuta per lavorare in azienda…
“Mi sono laureata alla Bocconi e ho trascorso diversi anni all’estero, ho lavorato a Parigi nel mondo bancario e a New York alle Nazioni Unite. Poi sono entrata nella Lloyd consulting, ed è stata una palestra per osservare in tempi brevi tante realtà aziendali grazie alla consulenza. Ma avevo il sogno di dedicare la mia vita ai meno fortunati. Così ho inviato il curriculum alle Nazioni Unite, senza troppe aspettative, perché le selezioni sono molto dure. Invece mi hanno chiamata e sono partita per il Niger, quando nessuno sapeva dove fosse questo paese enorme ma desertico, all’epoca il più povero del mondo. Un’esperienza che mi ha segnato sotto il profilo umano e professionale, in un contesto multiculturale. Ho trascorso un altro anno in Uganda con una Ong, in una situazione di emergenza perché era in corso una guerra civile. Organizzavamo di tutto, aiuti di prima emergenza, cliniche mobili, latrine. I miei genitori erano molto preoccupati, poi sono venuti a trovarmi e si sono tranquillizzati, anche perché con me c’era già mio marito, che lavora tuttora nella cooperazione. Di questo periodo conservo tanti ricordi, anche pesanti. Per esempio quando in Uganda hanno attaccato la macchina di un anziano missionario comboniano di origine trentina e siamo andati a salvarlo. I ribelli lo avevano rapito e malmenato, dopo avere ucciso l’autista. Né dimenticherò mai i racconti dei ragazzi che riuscivano a scappare, dopo avere trascorso anni e anni in mano ai ribelli. In Uganda ci sono ospedali gestiti da italiani, che svolgono un lavoro incredibile. Le famiglie mandavano i figli a dormire nei loro compound per proteggerli, quindi arrivavano queste fiumane di bambini soli con le coperte, che all’alba riprendevano il loro fagotto e si mettevano in cammino. Più di una volta li abbiamo contati per capire se i ribelli fossero vicini e quanta paura avesse la gente. Ed erano migliaia… Non lo abbiamo mai propagandato, ma la famiglia Lunelli finanzia nel nord del Mozambico un centro dedicato a nostra nonna, il Lar de Esperança Elda Lunelli, che da 20 anni è un punto di riferimento per l’accoglienza e la cura di bambini con ogni sorta di problemi; funge anche da ‘orfanotrofio’, mi si perdoni il termine, per i piccoli che vengono lasciati davanti alle porte di notte”.


Come si è svolto il suo ingresso in azienda?
“Diciamo che ho aspettato una chiamata. Mentre ero in Africa mio zio Gino mi telefonava spesso e abbiamo iniziato a parlare di questa possibilità. Quando poi la persona che occupava il mio ruolo attuale è partita, me l’ha offerto. E a me piaceva, perché avevo fatto il liceo classico e da sempre amavo leggere. Ma non è stato niente di automatico. Da una decina di anni poi vigono patti di famiglia che regolano i rapporti con l’azienda. Per esempio i consorti non possono essere assunti e le nuove generazioni sono tenute a fare i loro studi e a compiere le proprie esperienze”.

E’ troppo giovane per avere conosciuto Giulio Ferrari, ma ne avrà sicuramente sentito parlare.
“Mi è stato descritto come un uomo burbero, estremamente preciso ed esigente con se stesso e con gli altri, non facilissimo di carattere per un certo rigore austroungarico, che però gli ha consentito di raggiungere i risultati che conosciamo. Era comunque un nobile, che faceva il vino per passione, non certo per bisogno. Mio nonno Bruno invece era un imprenditore e mi è stato raccontato che quando nel 1952 rilevò la cantina, senza il palazzo né i vigneti, arrivò a casa dopo aver firmato una montagna di cambiali, emozionato ma spaventato perché aveva 5 figli da sfamare. Poi c’è stato mio padre Mauro, ideatore del rosé e del Giulio Ferrari, che ha stabilito una volta per tutte che le bollicine italiane possono competere con i migliori Champagne. Negli anni ’80 questo statement sarebbe suonato inconcepibile, invece alla cieca le degustazioni hanno continuato a fornire risultati sorprendenti; ricordo un numero del Gambero Rosso da cui usciva alla pari col Dom Pérignon. Pian piano questa considerazione è passata anche a livello internazionale, fino al premio Producer of the Year da parte di The Champagne & Sparkling Wine World Championship, nel 2015, 2017 e 2019”.


Le donne di famiglia sono state più defilate?
“Nonna Elda di fatto ha mandato avanti l’Enoteca Lunelli a Trento, con l’aiuto di una zia, quando il nonno è passato in cantina. È andata in bottega fino a pochi giorni prima di mancare, a 90 anni. Mia mamma invece era insegnante ed è sempre rimasta fuori dal vino”.

Personalmente cosa beve?
“Se devo stappare una bottiglia per me stessa, visto che mio marito è astemio, scelgo il Maximum. Il calice che mi godo di più è quello prima di cena, al momento dell’aperitivo o mentre cucino, dopo una giornata routinaria: rappresenta un piccolo momento di gioia. Fra gli abbinamenti apprezzo sempre più quello fra la pizza e il rosé, tanto che stiamo portando avanti collaborazioni in tutta Italia, ad esempio con i fratelli Salvo. Per il resto prediligo i bianchi, sia quelli corposi che quelli più leggeri. Le bollicine sono ancora una quota parte minore dei consumi; se con il concorso di altre denominazioni crescesse l’abitudine del tutto pasto, per un pranzo veloce di lavoro o una cena romantica in coppia, sarebbe un bene. Un’azione concertata fra Franciacorta e Trentodoc in particolare sarebbe positiva per tutto il vino italiano. A parte il brut, che va in Gdo, i nostri prodotti a maggiore valore aggiunto hanno il loro sbocco principale nella ristorazione. L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 in questo senso ci ha colpito particolarmente: le bollicine sono sinonimo di festa, senza contare il trading down a livello qualitativo, che ha spostato l’acquisto verso fasce di prezzo inferiori”.

Un’ultima domanda: qual è secondo lei il segreto del successo del vostro brand?
“Direi la serietà e la costanza, perché ci vuole tanto tempo per costruire una reputazione positiva, ma ne occorre pochissimo per smantellarla. I consumatori sono sempre più interessati a capire cosa ci sia dietro i prodotti, in questo senso credo abbiano pagato l’impegno ambientale, nel senso del lavoro sul biologico con i conferenti, le tutele dei lavoratori, la promozione del territorio. Poi il successo va gestito: per tanti anni la domanda ha superato l’offerta, cosicché dovevamo chiudere le vendite perfino in ottobre. Ma non abbiamo mai imboccato le due scappatoie possibili, abbreviando i tempi di invecchiamento, che sono largamente superiori ai disciplinari, fino ai 12 anni del Giulio Ferrari, o aumentando i prezzi. I focus group ci dicono che le nostre bottiglie sono considerate una certezza: vogliamo che continuino a essere il brindisi per eccellenza delle famiglie italiane, nei loro momenti più diversi”.