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Vini e territori

Doc Etna off/6. Massimiliano Calabretta: “La mia idea di vino? Non avere un’idea di vino”

30 Gennaio 2023
Massimiliano Calabretta Massimiliano Calabretta

di Alessia Zuppelli

“La mia idea di vino è non avere un’idea di vino”.

Sembrerebbe un’affermazione illogica, se non fosse che a pronunciarla è Massimiliano Calabretta, dell’omonima azienda etnea, della quale se n’è avuto modo di approfondire qui su Cronache di Gusto fin dall’inizio: la storia, i vini e la filosofia che ne anima la produzione. “È un’idea anche non avere questa idea. Lascio fare alla vigna, faccio sì che a esprimersi sia l’annata”. Questa, dunque, la sua (non) idea di vino, di vino dell’Etna. Un “Off” per eccellenza, insomma. Una manifestazione del pensiero massima ed estrema di un vignaiolo “apocrifo” che nutre un profondo rispetto per la sua storia, per il suo territorio (seppur a distanza) e non meno per il disciplinare di produzione etneo. Romantico, nel senso letterario del termine, amante della libertà di spirito, del voler fare a modo suo, o per meglio dire del lasciar fare al ciclo naturale delle cose. Fervente sostenitore della tradizione e della qualità, intraprendente interprete della vigna, non vede nubi sopra il cielo del Vulcano: “Oggi il brand Etna è certamente molto forte. Si sta lavorando bene e tanto. Possiamo continuare a migliorare ancora la qualità. Il mercato richiede vini identitari e qualitativamente alti. Credo che con tutti si stia rispondendo bene e in maniera compatta a questa richiesta. La mia azienda è ormai affermata, non ho quindi nessuna difficoltà commerciale se in etichetta non è indicata la Doc. Posso comunque dire che il disciplinare è scritto molto bene, sicuramente fra i migliori”.

Come ogni romantico, Calabretta restituisce un volto umano all’espressione artistico-culturale di quelle vigne di centenaria memoria, di cui “Vigne Vecchie” è solo una delle sfumature tangibili. Questo vignaiolo apparentemente sui generis, che con la sintesi scientifica dell’ingegnere, da più di vent’anni ormai studia e articola l’azienda con razionale puntualità attraverso i “Cru” di Contrada, sin dall’inizio si è dedicato a manifestare la sua libertà di espressione attraverso l’analisi dei differenti cloni di Nerello Mascalese, e di quei vitigni autoctoni che vinificati in purezza rientrano fra quegli “Off” sui quali ricade la nostra attenzione. “Il potenziale degli autoctoni è incredibile come dimostra la Minnella bianca e il Nerello Cappuccio” afferma. Un po’ per curiosità, un po’ per inclinazione, racconta Calabretta, dal 1997 ha sviluppato l’azienda, a seguito dei risultati delle sue osservazioni, sui “Cru” di Contrada e sui vini da monovitigno. La rassegna inizia con un recente esperimento da vecchie viti di Minnella Nera: dal 2017 la produzione di Minnella nera è limitata a un centinaio di bottiglie. L’ultimo anno appena 60. La quantità di vecchie piante è stata sufficiente per provare. È ancora in fase di studio. Come caratteristiche è simile al bianco.

Alla Minella bianca si lega un curioso aneddoto ricordato da Calabretta stesso: “Un produttore mi aveva chiesto “Perché vuoi vinificare da sola la Minnella? Non è buona”. Gli risposi che volevo esattamente capire quanto non fosse buona”. Ho iniziato a vinificare questo vitigno nel 2009, producendo circa 1.000/1.500 bottiglie l’anno. In realtà volevo capire quale fosse il suo apporto nel blend usuale dell’Etna bianco. Queste uve si trovano fra tutte le vigne che ho in mezzo alle uve rosse. Si diceva che dava finezza e quindi ho voluto provare. Così ho scoperto che la Minnella è un vino piacevole, di media acidità. È venuto un vino semplice, certamente, ma di grande piacevolezza che trova un riscontro unanime fra tutti gli appassionati. Certo, non è uno Chablis. Però bevuto fresco in una giornata calda va benissimo”. Sempre intorno a quegli anni la lente di ingrandimento si sposta sul Nerello Cappuccio: “Assieme a un amico, che aveva anch’egli una vigna, lo abbiamo vinificato in una barrique per vedere anche in questo caso cosa il Cappuccio apportasse al blend. Devo dire che quel 20% fu studiato bene perché stempera la mascolinità del Nerello Mascalese che appare più nervoso. È un vino diverso, piacevole”. 

Infine, ma non meno importante, il Pinot Nero. Un vitigno che fra i vari rispecchia nella maniera più fedele il territorio nel quale viene coltivato. Questo fu piantato a 900 metri di altitudine, nella zona Zocconero sopra Solicchiata. Un vitigno che nelle zone più alte del Vulcano era tradizione ben due secoli fa: “Il Pinot Nero si esprime molto bene seppur con un suo carattere vulcanico. È evidente che sia molto diverso da altre espressioni da suoli calcarei. Il primo impianto risale al 2007, e la prima bottiglia è del 2010. È un vino che sta avendo molto successo per la sua piacevolezza e la sua identità vulcanica”. Con lo sguardo rivolto all’infinito, come quel viandante sul mare di nebbia di Friederich, Calabretta tirando un po’ le somme conclude: “L’Etna in futuro la vedo bene. Il disciplinare? Direi che lo amplierei in altitudine per bianchi e spumanti, cioè facendo uno studio su questo limiterei certe altitudini per alcune specifiche tipologie”.

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