La fame causa le guerre, le guerre causano la fame, la fame come arma di guerra; un gioco di parole che rileva il forte legame tra i conflitti e le carestie. Secondo l’ultimo Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari (GRFC), nel 2023 quasi la metà delle persone vittime della fame acuta vivono in territori di guerra dove la fame uccide quasi quanto le bombe.
Sono proprio la guerra e la fame a fare da sfondo al film Le assaggiatrici, diretto da Silvio Soldini interpretato in modo magistrale dall’attrice Elisa Schlott. Una pellicola tutta al femminile, potente e densa di riferimenti storici, in cui il cibo alimenta emozioni contrastanti e l’atto del mangiare assume significati inediti e paradossali.
Tratto dal romanzo omonimo scritto da Rossella Postorino, ispirato ad una storia vera e premio Campiello nel 2018, il film Le assaggiatrici è ambientato in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. In questi anni il nazismo scrive una delle pagine più buie della nostra storia e, ancora oggi, continua a svelarci altri orrori tuttora sconosciuti.
Il film racconta la singolare vicenda di Rosa Sauer che, insieme ad altre sei giovani donne tedesche vedove, sole o in attesa del ritorno del marito dal fronte russo, viene reclutata dalle SS del Führer e obbligata ad assaggiare, due volte al giorno, le pietanze preparate per i pasti di Hitler; quest’ultimo ossessionato dalla paura di essere avvelenato e di subire degli attentati e per questo motivo nascosto nella Tana del lupo, il quartier generale nazista nella foresta di Goerlitz in Polonia.
Le donne, affamate dalla guerra e saziate da gustosi piatti potenzialmente mortali, si muovono attorno al tavolo da pranzo e tra le stanze del quartier generale dove il rischioso appuntamento quotidiano con il cibo e con gli alti ufficiali delle SS nel tempo diventa routine, alimentando relazioni di amicizia, amorose ma anche tradimenti e forti tensioni.
Il primo pasto alla tavola del Terzo Reich, così abbondante e ricco, desta la meraviglia nelle donne ancora ignare del lavoro da svolgere. Quando però il cuoco del Führer svela il pericoloso compito alle commensali, il loro stupore manifestato con l’espressione “davvero si può mangiare” diventa subito timore di dover mangiare davvero. In questa aberrante circostanza, in cui il pentolino magico si trasforma nella pentola della strega di Hänsel e Gretel, lo chef, prima si rivolge alle commensali definendole fortunate di poter assaggiare delle prelibatezze per proteggere la vita del Führer in una guerra in cui comunque tutti i tedeschi rischiano di morire ogni giorno per la fame e per le bombe, e poi va in scena come se fosse il maître nella sala del suo ristorante presentando, con una breve descrizione, le pietanze servite alle assaggiatrici: crema di piselli e menta, insalata di ceci e zucchine marinate, fantasia di cavoli con carotine e torta di albicocche.
Se pasto dopo pasto e boccone dopo boccone, come scrive Carlo Petrini nella nota al libro Cibo e rito di Piercarlo Grimaldi, “saremo quello che avremo mangiato” così le assaggiatrici, condividendo il cibo con Adolf Hitler, scoprono dall’interno la vera sostanza del feroce dittatore che non beve alcol, mangia poco e mai carne perché, come racconta il cuoco alle donne: ama il suo cane Blondi e prova disagio alla vista del sangue.
Il ritmo della narrazione è scandito dai pasti in cui il silenzio, intriso dalla paura di assaggiare del cibo forse avvelenato ma anche no, viene interrotto dall’acciottolìo delle stoviglie in tavola e dalle minacce degli ufficiali che obbligano le donne a testare tutto il cibo anche se controvoglia. Fino a quando un miele indigesto rompe la surreale quotidianità, seminando il terrore tra le commensali e accumulando una tensione forsennata nel quartier generale alle prese con l’urgenza di proteggere il Führer e scongiurare il presunto avvelenamento ordito da piccole api bottinatrici, colpevoli di aver visitato i fiori di alcune piante spontanee tossiche.
Soltanto quando Hitler lascia per brevi periodi il suo nascondiglio, il ritmo della narrazione sembra acquietarsi su di un prato dinnanzi ad uno specchio d’acqua dove Rosa, in libera uscita insieme ad alcune compagne, ritrova spazi di pace e normalità in armonia con la natura e nei momenti di intimità con l’alto ufficiale con cui ha intrapreso una relazione amorosa, il quale, sul finale del film, la aiuterà a fuggire su di un treno diretto a Berlino poco prima dell’arrivo dell’Armata Rossa.
A rendere il film ancora più inquietante contribuiscono sia la preziosa colonna sonora di Mauro Pagani, in certi momenti esasperante e in altri tenue, sia la magnifica fotografia di Renato Berta, ora scura e claustrofobica ora di grande respiro. Con un impatto altrettanto forte nella pellicola ricorre il colore grigio, un’atmosfera gelida e ambientazioni scarne ed essenziali.
Il film Le assaggiatrici, con i suoi molteplici rimandi ai giorni nostri, lascia l’amaro in bocca, ovvero quella sensazione gustativa che, inviata al nostro cervello, attiva il principio di precauzione. Il sapore amaro infatti serve a riconoscere un pericolo che Rossella Postorino ha notato guardando il film. Nell’articolo di Arianna Finos su La Repubblica, la scrittrice dice “se cambi ambientazione e divise la storia potrebbe accadere tra vent’anni”.