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Basta mode e leggende sul vino. Michele A. Fino in “Non me la bevo” si allontana dalle scuole di pensiero

02 Giugno 2024
Da sinistra la copertina del libro “Non me la bevo” e Michele A. Fino Da sinistra la copertina del libro “Non me la bevo” e Michele A. Fino

In un mondo sempre più secolarizzato c’è un ambito dove il sacro e il pensiero magico godono di ottima salute: quello del vino.

Da un lato il mito, inventato, dal vino come una volta. Dall’altro i neo positivisti, i dogmatici della tecnica, della chimica, enologica e non, e delle magnifiche sorti e progressive. Nel mezzo noi, ovvero chi beve. 

La chiarezza non è conveniente per il marketing, la confusione e l’imprecisione sono sempre favorevoli al commercio, specie in un mondo, quello del vino, dove l’emotività e il marketing sono, da sempre,  fattori importanti. 

In questo scenario, di rivali dogmatismi si inserisce uno dei pochi libri che, almeno in Italia, vuole fare chiarezza. 

È un libro prezioso quello di Michele A. Fino, “Non me la bevo” che sceglie di non appartenere a nessuna scuola di pensiero e optare per la via illuminista della regione, della ragione e basta, per parlare di un liquido: il vino, che con l’irrazionale ha sempre flirtato abbastanza. 

Mitcolàstica è l’aggettivo con cui si può riassumere quest’opera, in cui si parte dalla storia, dalle definizioni e dalle leggi. Uno sguardo che potremmo definire olistico/razionale, per cercare di trovare una lettura, scevra da dogmatismi, campanilismi di comodo.

Cosa è il vino, come si fa, come si tutela o non si tutela legalmente, sembrano domande banali, ma non lo sono per nulla. 

Varietà PIWI, vino naturale, convenzionale, biodinamico, doc, docg, marketing… ci sono tante cose in questo libro, ma il pensiero espresso, è sempre lineare, mai cacofonico.

Nessuno mito è risparmiato da un presa in esame attenta e anti dogmatica, nemmeno i padri della (eno)critica italiana, Veronelli e Soldati, di sicuro due personaggi importanti, ma la cui acritica mitizzazione ha portato, putroppo troppo spesso a metterne in ombra, contraddizioni ed errori.

Vino al Vino, di certo un’opera capitale, per tutti i wine lovers, italici, spesso più instagrammata che letta, come l’Ulisse di Joyce per gli irlandesi, è un libro che va storicizzato e contestualizzato, come del resto il Veronelli-pensiero, che vi invito a recuperare (uno dei tanti pregi del libro è quello di essere una miniera di materiali di approfondimento) nella serie Viaggio Sentimentale nell’Italia del vino,  la cui seconda puntata, assomiglia, nei toni e nel merito a quelle recenti del famoso programma di inchiesta rai, diretto da Sigfrido Ranucci. 

Se non vi è chiara la differenza tra parole come sofisticazione, adulterazione e contaminazione. 

Se vi pare una follia, lo è ma è totalmente legale, che si possa fare vino in Australia e chiamarlo Prosecco o vino in California e chiamarlo Champagne.

Se non sapete perché, anche nel momento in cui si parla di etichettare il vino in modo sempre più trasparente nella maggior parte delle bottiglie non è ammesso scrivere l’informazione, forse, più importante: il nome del vitigno da cui il vino è composto.

La storia, le parole giuste e la calma sono gli ingredienti per un debunking serio di cui in questo (eno)mondo balcanizzato, c’era e c’è molto bisogno.

Tra tra chemofobia e Michel Rolland forse esistono terze vie (plurale d’obbligo) cui fare vini buoni, buoni e basta, questo libro ci aiuta a capire perché. 

Non me la bevo
Michele A. Fino
Mondadori, 2024
204 pagine
19,00 euro