“C’è una nuova storia da raccontare a Pantelleria”. E’ così che Federico Latteri apre la terza giornata del Vinitaly 2025 con una masterclass sulla perla nera del Mediterraneo. Terra “esplosa” nel centro del canale della Sicilia, con il sole che tramonta guardando la vicina Tunisi e il dito che tocca, invece, la Trinacria. Sole e vento i suoi descrittori per una viticoltura fatta da un unico monarca, lo Zibibbo, così localmente detto qui il Moscato d’Alessandria, che trasforma i suoi “sudditi” in vini dolci, caldi, solari, eppure, poi, anche, in vini pieni di sale e di acidità che dalle narici sanno distendersi in palati tanto carnosi quanto dinamici. Sono sempre stati così i vini qui a Pantelleria, merito di un’isola che non si è mai fatta domare dall’uomo, trovando in lui solo uno strumento che, al più, si è adattato a lei, in un equilibrio tra paesaggio naturale e paesaggio agrario fatto tra natura e lavoro umano.
E così che l’uomo per conviverci ha accettato anche la dura fatica di coltivare un alberello pantesco, unico sistema di allevamento presente sull’isola perché solo lui è in grado di resistere alla potenza di quei venti forti che spezzerebbero qualsiasi altra pianta se fosse alta poco più di 40 centimetri. Si sta lì, allora, con la schiena spezzata durante la vendemmia, quasi seduti accanto a quelle piante semi-interrate che nascondono nel loro fogliame grappoli pieni di succo e zucchero. Acini di un giallo carico destinati a diventare quasi marroni quando stesi al sole cocente, per disidratazione, si appassiranno per diventare l’oro di Pantelleria con la produzione del suo vino più iconico: il Passito.
Non a caso Zibibbo dall’arabo zabīb, che significa uva passa “destinato a rimanere un vino di nicchia” precisa Latteri visto che appena 400 sono gli ettari vitati in tutto il territorio. Nulla in confronto al verde che si vedeva sull’isola durante gli anni ’80 “ma si è assistito ad un abbandono progressivo nei vigneti proprio per le difficoltà di coltivazione”. Qui allora resiste solo chi la ama, ma per quelli che hanno deciso di restare l’isola sa concedere i suoi frutti migliori. Con vigneti sparpagliati dove la roccia lascia spazio alla terra, “ci sono produttori che hanno due ettari sparpagliati in tante micro parcelle” e dove tutto è, però, difficile qui non esiste la meccanizzazione e Pantelleria rappresenta ancora uno dei pochi casi in cui l’uomo non può essere ancora sostituito. Per questo risuona come una chiamata alle armi, quella di Renato de Bartoli: “Il futuro di Pantelleria passa attraverso gli incentivi per la formazione di personale specializzato locale. Senza personale siamo tutti più limitati a creare sviluppo”.
Un futuro, quello che sogna de Bartoli, che trova le sue radici necessariamente nel passato con la prospettiva di un’economia florida solo se non si perde nella memoria dell’oblio quel fare antico per la produzione dei vini panteschi. “Ma per farlo c’è bisogno di uomini e donne che vogliano vivere a Pantelleria e produrre i vini veri di Pantelleria” continua de Bartoli. Il passato di cui parla si chiamava passulata e si faceva vinificando assieme uve a diversi stadi d’appassimento: si iniziava con la fermentazione delle uve più fresche, e a mano a mano si aggiungevano le uve sempre più appassite e quindi cariche di zucchero. Ancora oggi il procedimento è sempre lo stesso, con agosto il mese dell’avvio dei mal di schiena “quando si raccolgono le uve più precoci e si lasciano appassire, girandole e rigirandole periodicamente, al sole” un’operazione, questa, che, però, può durare fino a ottobre, tanto ampia è la forbice di maturazione tra le varie zone dell’isola.
E a questo punto ci vuole tanta pazienza con il tenore zuccherino delle uve che è tale che la fermentazione può durare anche un mese. Insomma, non proprio un processo “facile e veloce” per chi è alla ricerca di guadagni immediati sul mercato, ma chi ama l’isola sa aspettare e chi è amato dall’isola sa ricevere esattamente quello che l’isola sa dare.