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Il personaggio

Filippo Polidori: “Io, Josko Gravner, Jovanotti e il comunicare al tempo dei social”

17 Agosto 2023
Jovanotti e Filippo Polidori Jovanotti e Filippo Polidori

Nei suoi account si definisce scherzosamente “food guru”, ma chi è davvero Filippo Polidori? C’è lui dietro la comunicazione digital di alcuni dei nomi più belli della cucina e del vino italiani, ma è anche un formidabile organizzatore di eventi visionari, che hanno relazionato mondi agli antipodi.

Come ti definiresti?
“Questa è una bella domanda, non lo so neanche io. Quindi parto da lontano e ti spiego come nasco. Mio babbo Giuliano col fratello Piergiorgio nel 1968 ha aperto la prima balera delle Marche, poi sono diventate dancing e discoteche: si chiamava Dancing 2000, a Sassocorvaro. Mio babbo era un grande appassionato del liscio, che a quei tempi si ballava nelle aie e nei poderi. In famiglia erano impresari edili, così hanno costruito un grande condominio con sotto un garage per ballare su due piani. E ci sono passati tutti, da Mina in avanti. La gente arrivava da lontano e nel 1970 hanno aperto anche il Ristorante 2000, a cento metri dalla balera. Io ho odiato questo mondo fino a 18 anni, perché al ritorno da scuola e anche quando era chiusa, dovevo sempre aiutare e alla fine del servizio raccogliere i bicchieri, già a 12 anni. I miei mi sembravano due disadattati, sfigati che non sapevano che fare della loro vita. Così però ho imparato molte cose. Per esempio che il segreto di un dj è far star bene la gente: quando venivano grossi nomi e la pista non si riempiva, loro incolpavano la mancanza di cultura. Mentre quelli bravi educavano il pubblico. E io ancora oggi incontro chef che stigmatizzano il cliente, perché non sanno tenere la pista piena”.

Poi c’è stato l’incontro con una persona speciale.
“È successo che leggendo la Gazzetta dello Sport sul Giro d’Italia, l’occhio mi è caduto su articoli che parlavano di cibo e di vino, non bianco o nero, ma tirando in ballo letteratura e musica, come una forma d’arte. Era Luigi Veronelli, ma io non lo conoscevo, perché non c’era ancora la rete. Così ho preso carta e penna e ho scritto una lettera ingenua, da ragazzo di campagna, ringraziando a nome della mia famiglia, perché aveva dato un senso ai nostri sacrifici, e lasciando il telefono del ristorante, l’unico che avevamo. Dopo qualche settimana mi chiamano durante il servizio: “Pronto, sono Luigi Veronelli”. Io ci ho messo un po’ a ricordarmi. “Ho ricevuto la tua lettere bellissima, mi ha emozionato, è stato come se ci conoscessimo da sempre e io fossi quello di una volta, senza una segretaria”. È finita che mi ha invitato a Bergamo, quando io al massimo ero stato al Kinki di Bologna. Non sapevo nemmeno dove fosse. L’indomani parto, entro alla Veronelli Editori, mi accomodo nella sala d’attesa, aspetto una ventina di minuti, chiedendomi cosa ci stessi a fare. Si apre la porta: “Filippo, amico mio, entra pure”. Me lo ricordo come se fosse ieri, lui con questi occhi azzurri, dietro le bottiglie vuote, con le pile di libri da tutte le parti. A pranzo cucinava uno chef inglese, perché lui ospitava cuochi da tutto il mondo, e ricordo che mi guardava con occhi stupiti, come uno che non avesse idea di vino o di ristorazione, ma fosse mosso da genuina curiosità. Mi ha chiesto cosa avrei fatto nelle prossime settimane. “Niente, sono appena tornato dal militare, mio padre vorrebbe che prendessi in mano il ristorante di famiglia, ma io faccio il dj per passione”. E lui: “Se non hai niente da fare, la prossima settimana puoi venire con me a visitare dei grandi produttori italiani e francesi”. Sono tornato a casa per fare le valigie, mia madre era diffidente, invece mio padre fa: “Lascialo andare, forse è la volta buona che si innamora del ristorante”. Una settimana con Veronelli mi ha fatto davvero innamorare di quel liquido bianco e nero, che per me fino a quel momento era stato un mero accessorio della tavola; mi ha fatto capire che la ristorazione era un mondo che teneva in piedi l’Italia, fatto di geni e anche delinquenti. Siamo passati in posti mitici, da Tenuta San Guido, da Josko Gravner. Ovunque lui diceva: “È un mio collaboratore bravissimo, ne sentirete parlare”. E quando mi schermivo, mi sgridava. Così sono rimasto con lui 9 anni, fino alla morte, facendo l’autista e scribacchiando di vino, perché la cucina era troppo complessa. Lui mi voleva pagare ma io rifiutavo, mi manteneva mio padre, che sognava il mio ritorno. Ma io ero contento così, perché sapevo di stare con un genio. Era uno che godeva, faceva sbiancare i camerieri, sfidava i maître a chi beveva più bottiglie. Un parco giochi. Quando è mancato, mi sono chiesto: continuo a scrivere o faccio altro? Ero sempre stato in imbarazzo a criticare o mandare indietro un vino difettato, perché capivo il sacrificio. Quindi ho deciso di raccontare solo storie e prodotti che mi piacessero. Proprio in quell’anno, il 1998, arrivava Internet e ho iniziato a scrivere di vino sul primo social network, che non era di cibo ma di musica, My Space. Mi insultavano tutti, ma era l’unico modo per raccontare quello che mi piaceva su un mezzo che avrebbe cambiato le sorti della comunicazione. I primi due clienti sono arrivati grazie a Veronelli, che è ancora il desktop di tutti i miei device. Il primo è stato il Marchese Nicolò Incisa della Rocchetta: “Ma lei cosa farà, scriverà di cibo o altro?” E io: “Voglio raccontare storie di persone che mi piacciono sui nuovi media”. La seconda telefonata è arrivata da Gravner, nel suo momento più buio. Era considerato il più grande produttore di bianchi d’Italia e forse del mondo, che però aveva preso una brutta deriva con i macerati. Il Gambero Rosso scriveva di vini al limite della bevibilità, era considerato in caduta libera. E io sono andato in Georgia con lui a comprare le anfore e ho curato tutta la comunicazione della svolta. Con due clienti così, gli altri praticamente sono arrivati da soli. In pratica la Polidori & Partners, che oggi conta 19 persone, è stata la prima agenzia digitale verticale sul food in Italia.

Filippo Polidori Filippo Polidori

Gli eventi e Jovanotti

In un secondo momento sono arrivati gli eventi…
“Tutti questi incroci mi hanno permesso di tornare anche alla musica. Conoscendo Jovanotti, abbiamo portato i grandi chef a cucinare nei concerti del Jova Beech Party, in un segmento dove il cibo era sempre stato spazzatura. Invece io ero convinto che unire mondi lontani portasse un valore aggiunto, compreso il lusso. Oggi devo ringraziare il mio passato, dopo averlo maledetto. Tanto che quando sono a casa, servo ai tavoli a Sassocorvaro. A volte si rischia di volare, ma senza quella trattoria, dove si mangia con 20 euro, non capirei il sacrificio che c’è dietro un piatto e non sarei così eccitato, scrivendo una strategia di comunicazione. Non mi emozionerei in questi templi del lusso, dove ancora indosso la mia camicia migliore, cosicché so quali leve emotive azionare. Per questo i miei cavalli e mia figlia sono ancora a Urbania, nelle Marche. In una strategia di comunicazione si tende sempre a ragionare col cervello, ma ai ragazzi ripeto che bisogna metterci il cuore, che porta all’azione. È come la differenza fra un turista e un viaggiatore: il primo sceglie la vacanza al prezzo migliore, il secondo sa dove andare. Il digital è una grande piazza, piena di ciarlatani, ma anche di persone sensibili; sta a noi andarle a cercare. Ed è qui la differenza fra un’agenzia digitale buona e una mediocre. I nostri competitor passano dal cibo al pannolino; noi siamo più piccoli, una bottega rinascimentale, ma abbiamo un approccio diverso”.

Come sta cambiando la comunicazione food and wine?
“Ti faccio la mia fotografia attuale: che si trattasse di brand reputation, vendite o posizionamento, il successo finora si è basato sulla bellezza, qualcosa che un bravo fotografo può creare acconciando anche un piatto mediocre. Quindi una sopravvalutazione estetica e una sovraesposizione del food. Instagram, che è il social di riferimento del fine dining, premiava la qualità delle immagini, ma l’utente oggi si è stufato di piatti perfetti e luoghi asettici. Le immagini dei migliori 10 ristoranti del mondo sono bellissime, ma senza vita: mancano le persone, le ombre, la magia. Quindi hanno capito che serve un contenuto che generi interazione e TikTok ha cambiato ulteriormente le regole, con i suoi video girati col telefonino, che coinvolgono. Personalmente sono un esteta, ma le immagini devono raccontare fedelmente i luoghi e l’anima, metterci la vita vera, qualcosa di molto più complesso della vecchia comunicazione. E i numeri mi danno ragione. Serve matchare un’estetica funzionale a brand reputation e call to action”.

Filippo Polidori Filippo Polidori

Fare un post e roba da professionisti

Quali chef segui attualmente?
“Enrico Bartolini con la sua galassia, Giancarlo Perbellini, Massimo Bottura, Gucci Osteria, ma limitatamente alla digital food brand reputation. Racconto il brand attraverso strategie digital che da online possono diventare on land. Penso al Rimini Street Food, nato come progetto digitale per raccontare la piada, che poi è diventato un format tv e un evento live”.

Bisogna per forza passare dai social?
“Ho appena ricevuto i dati ufficiali: gli over 50 fuori dal lavoro passano 5 ore al giorno al telefono e compiono il 60% degli acquisti online. Figurati i più giovani. I social creano tendenze, da lì passi al sito web per prenotare e al ristorante: è la famosa call to action, da cui si misura il successo di un’agenzia digitale. Che ci piaccia o meno, il gruppo Meta conta miliardi di utenti, è l’ambiente dove c’è più pubblico, da cui pescare. Come la pubblicità televisiva negli anni ’80 o la cartellonistica ancora prima. Il 60-70% degli acquisti e delle prenotazioni oggi passa dai social”.

Alcuni però si gestiscono da soli…
“Anche noi abbiamo clienti che decidono autonomamente cosa postare e si confrontano con noi solo sulla scelta già compiuta, anche per problemi di budget. Noi ci limitiamo a gestire le campagne di performance e la parte tecnica. Ma fare performare un post è materia per professionisti. Quando lanciamo una campagna, controlliamo ogni tot ore se performa, sennò la stoppiamo, cerchiamo di capire, nel caso cambiamo o cancelliamo. Poi facciamo un report al cliente, ma occorrono conoscenza ed esperienza”.

In questo modo si arriva anche alle guide e alle classifiche?
“Una buona comunicazione porta a far conoscere i luoghi. La guida Michelin, come la classifica di The World’s 50 Best, è fatta da uomini, che hanno i loro limiti. Ma le informazioni, se ben veicolate, incuriosiscono i destinatari. I digital sono piazze dove bisogna sapersi muovere, nel senso che se esci ben vestita e profumata, con i capelli a posto, hai più possibilità di essere notata e che qualcuno ti offra un caffè”.

Cosa cambierà con l’avvento dell’intelligenza artificiale?
“Secondo me nel leisure avrà azioni ridotte, perché non sa vendere un’emozione. Nessun algoritmo potrà mai sostituire il profumo del mosto in cantina o il tramonto su una vigna a Radda in Chianti. Però può aiutarci nell’invogliare a prendere l’aereo o la bicicletta per andare a vedere quel tramonto. L’algoritmo rappresenta un aiuto straordinario per divulgare, arrivando ai clienti in target”.

Nuovi progetti?
“Nella mia carriera mi ero dato due regole. La prima è lavorare solo con chi mi piace, ed è tatuata ovunque. La seconda invece l’ho trasgredita: mi ripromettevo di non lavorare mai e poi mai dove vivo, a Urbania, per staccare. Invece è successo che il sindaco e l’assessore di Urbino mi hanno invitato a prendere un caffè e io mi innamoro subito delle belle storie: nelle Marche ha aperto il primo distretto del biologico in Italia, grazie ad Alce Nero. Oggi è un lessico abusato per la sovraesposizione, noi però vogliamo parlare non sono di prodotti, ma anche di territori intatti per lo scarso turismo. Il Duca di Urbino ha creato l’umanesimo, portando gente pensante a parlare di futuro; qui vogliamo raccontare un mondo migliore, invitando persone che descrivano la propria esperienza. Si chiama Bionascimento: a partire da ottobre ci saranno eventi sul cibo e la cultura/coltura, che per me sono la stessa cosa”.