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Scenari

Chi ha ucciso il pesce fresco? La “lotta” contro l’avanzata di polpo e baccalà nei menù

24 Agosto 2021

di Alessandra Meldolesi

C’era una volta il ristorante di pesce, quel posto dove nelle occasioni speciali andava a far festa chi non osava approcciare una materia tanto ostica e aliena: il pesce fresco.

Presentato nelle vasche di ghiaccio, con l’occhio calante e le branchie già un po’ flosce, era immancabilmente “di giornata”, “dell’asta”, “delle barche”, almeno secondo i camerieri. Non restava che sottoporlo al minor accanimento possibile, secondo il cliché di una “zero cucina” di mare, che non aveva aspettato il divino Marchesi per egemonizzare il piatto. Poi è arrivata la moda del crudo, con scalo sul mar del Giappone, e insieme ai susci all’italiana e alla tendenza mi-cuit, effetto traslucido sulla lisca, è esploso lo spauracchio dei parassiti, con l’anisakis convertita in alibi per evitare rischiosi approvvigionamenti quotidiani. Se il congelatore era un tabù, l’abbattitore è diventato un totem da esibire: la prova provata della massima attenzione alla salute del cliente. Anche se i campioni della categoria hanno continuato a riservarlo al crudo: parliamo di locali come Romano, Lorenzo, Pascucci, Cerea. Dove il pesce fresco è ancora religione. Il problema? La perdita di liquidi in rigenerazione.

Ma non è stato solo l’abbattitore a uccidere il pesce fresco: il giallo dell’estate ha altri indiziati. Per esempio l’avanzata di tipologie che del fresco appunto fanno a meno, sempre più dilaganti nel comparto “mare”. Il polpo ha di fatto avvinghiato le sue ventose su gran parte dei menu, senza “polpo” ferire. E si tratta di un cefalopode cui il freddo non fa un baffo, che anzi con il freddo si intenerisce e migliora. Sarà per questo che Instagram trabocca dei suoi tentacoli, invariabilmente sottoposti a doppia cottura, lessi o sottovuoto a bassa temperatura, poi tostati sulla piastra? Tutto questo nonostante l’aumento dei prezzi dovuto al calo della pesca, principalmente in Marocco. Con le regole europee gli orari di lavoro si sono accorciati, tanti stanno vendendo le barche in assenza di un ricambio generazionale, più le difficoltà dovute a lockdown e brexit. E le prospettive non sono positive, tranne che per l’allevato, mentre la domanda cresce di pari passo con la ristorazione di mare. Un’equazione rompicapo, che fa impennare i prezzi.

Gli fa compagnia un altro pesce highlander, anch’esso in crisi di offerta: il baccalà (ma pure, appena più defilato, il delizioso stoccafisso, di cui siamo primi consumatori al mondo). Quindi un merluzzo sotto sale e senza data di scadenza, da utilizzare a piacimento e tutto l’anno, che dalle aree dove è di casa per tradizione ha invaso la ristorazione nelle vesti più varie (ma attenzione alle frodi, perché è uno degli ingredienti più taroccati in assoluto nella versione salinata, unica garanzia il prezzo). In commercio si trovano porzioni già sfilettate sottovuoto che in frigorifero durano 90 giorni. Ma la produzione arranca, non tanto per problemi di overfishing, spiega lo chef Franco Favaretto, dato il rigido sistema scandinavo di quote, ma per il fiorente commercio del fresco, che in tempi così incerti consente di contabilizzare immediatamente, senza immobilizzare capitali.

In generale, ancora oltre, viviamo i tempi del pesce “frollato”, riportato al centro dell’attenzione da Josh Niland, ma da sempre presente in certe pratiche tradizionali, dalla Sardegna al Giappone. In Italia fra i suoi adepti si contano Moreno Cedroni, che ha incardinato su di esso l’ultima stagione della Madonnina, l’ottimo Marco Visciola del genovese Marin e Jacopo Ticchi della trattoria Da Lucio a Rimini. Di fatto buona parte del Tunnel, il laboratorio che Moreno Cedroni ha allestito accanto alla Madonnina negli spazi di un garage di famiglia, è stata adibita a spazio per la frollatura del pesce. In diverse celle sono appesi grandi esemplari e anche insaccati che andranno a comporre una degustazione intermedia fra l’antipasto di salumi all’italiana e una metempsicosi del susci con la c. Preparata dallo chef al guéridon, disegna un crescendo organolettico: via via che il tempo di maturazione si prolunga, dalla semplice perdita di liquidi, che si traduce in testure sode e concentrazione gustativa, si va verso le evoluzioni di un grande salume; ma ci sono anche pesci frollati che vengono cotti per essere protagonisti di ricette compiute. La notizia è che un biologo con tanto di camice immacolato, sullo sfondo buio pesto delle apparecchiature fantascientifiche, misura costantemente i parametri e raccoglie dati, che presto saranno di pubblico dominio per padroneggiare le trasformazioni.

Marco Visciola dal canto suo lavora alla frollatura del pesce dal 2019 presso il Marin di Genova, che ha appena festeggiato i suoi primi 10 anni. L’ha studiata con Alessandro Cuomo, autore di un algoritmo per correlare temperatura, Ph e umidità di ogni tipologia e creatore del pesciugatore, strumento indispensabile per il suo metodo brevettato. “Ma per noi non è moda, piuttosto il modo per espandere le nostre radici: le stagionature del pesce le abbiamo dentro, vedi le acciughe sotto sale e il mosciame, ingrediente principe del cappon magro. Ci sono utili anche per la sostenibilità, aiutando a valorizzare il pesce povero in eccesso. Tanto che da settembre proporremo un menu dedicato”.

Ma la prospettiva, qualcuno dice, è che questa tecnica si affianchi all’uso del pesce fresco a tutti i livelli della ristorazione. Anche in trattoria. Ci sta già lavorando Jacopo Ticchi da Lucio a Rimini, autore di un libro in materia che si propone come studio scientifico, con campionature dal giorno 0 al giorno 20, anche per controllare la carica batterica. “Proponiamo solo pesce frollato, tranne molluschi e crostacei. Viene tenuto appeso anche due giorni. È innanzitutto un metodo di conservazione che preserva il pesce pulito dall’umidità, già in un’ottica di consumo a fresco è utile e sostenibile, con vantaggi per la testura e il gusto. Anche se ci sono costi iniziali da ammortizzare, le celle costano circa 5.000 euro”.

I puristi tuttavia storcono il naso e non si adeguano. Per esempio l’inossidabile Romano Franceschini a Viareggio: “Cosa penso del pesce frollato? Sono dell’idea che sia migliore il giorno stesso, al massimo i grossi esemplari possono essere lasciati riposare 24 ore, perché sarebbero stopposi. E l’abbattitore lo usiamo solo per il crudo”. E Chicco Cerea: “Mio papà già trent’anni fa frollava le cernie di una certa dimensione, su suggerimento dei pescatori, sennò sarebbero risultate coriacee. Adesso sta diventando un po’ troppo di moda, come i ‘pesci alternativi’, che ci sono sempre stati. Io resto per il pesce fresco appena pescato. Ma in generale non è cambiato nulla da quando abbiamo iniziato a fare ristorazione”. Mar comune, mezzo gaudio insomma. Ma c’è ancora chi preferisce il gaudio intero.