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I giorni del cavolo

Il cavolo nel nostro linguaggio, il re nei modi di dire

17 Gennaio 2012
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di Giancarlo Macaluso

Che cosa indichi il cavolo nel linguaggio comune figurato non ve lo stiamo a dire.

Se a qualcuno dite che è una testa di cavolo gli state usando una cortesia, visto che meriterebbe un’altra parola, ben più esplicita ed efficace. Questo dimostra comunque che mantiene una sua raffinatezza se  gli tocca fare le veci del più triviale cazzo. Povero cavolo, verrebbe da dire. Bistrattato, maltrattato, usato a sproposito, relegato all’infamia del linguaggio da suburra.

“Il termine deriva dal greco kaulos – spiega Francesco Lo Piparo, filosofo del linguaggio, professore all’università di Palermo -. Significa fusto, stelo”. Più chiaro di così. Ma anziché assurgere al rango di divinità, è caduto nella affollata rimessa delle parole da evitare. I modi di dire legati all’ortaggio da sdoganare sono molti. Anche la simbologia si è occupata di esso. Basti pensare che nell’universo onirico degli antichi (ma anche dei moderni, quelli che ci credono almeno) il sogno animato dal cavolo implicava cattivo presagio, malumore tristezza, caduta della felicità. E questo perché il rango della pianta era (era?) ritenuto di scarsissimo profilo. Probabilmente anche il suo non del tutto gradevole odore ha contribuito al declassamento inesorabile da quella misteriosa agenzia di rating del gusto attiva da secoli. 

Fare una “cavolata” significa commettere una sciocchezza, al pari di portarla al tavola. Il Nostro è per definizione incongruo, infatti di una cosa fuori posto si dice che ci sta “come i cavoli a merenda”; un’azione maldestra si porta appresso l’immancabile “che cavolo fai?”; una parola inopportuna un bel “fatti i cavoli tuoi” e le responsabilità che non si possono schivare diventano “cavoli amari”. 

Il suo legame con il mondo sessuale, comunque, ha a che fare sulle presunte capacità afrodisiache del cavolo. Nel mondo latino l’infuso di foglie era consigliato ai maschi lievemente spenti. Provateci, non si sa mai.  Si presume che curasse anche una quantità di malattie. Qua e là si legge che un medico greco di nome Crisippo (IV secolo a.C.) abbia dedicato un intero libro al cavolo che peraltro era considerata una pianta sacra, nata dal sudore di Zeus.

Da bambini, infine, ci hanno insegnato che i neonati si vanno a prendere sotto i cavoli. Forse perché la Brassica oleracea, sferica, spunta dalla terra madre come la testa di un bimbo dal grembo materno. Può darsi.

Fatto è, in conclusione, che questi benedetti cavoli in tutte le varietà che conosciamo hanno finalmente bisogno di essere promossi, di resuscitare dal triste limbo in cui sono caduti. Vanno riscoperti e mangiati. Evitando accuratamente “i cavoli amari”.