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Il prodotto

Il vino con San Giacomo a cavallo

05 Marzo 2014
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Ci sono le pecore, le mucche, l’asino, c’è mamma Teresa, un ettaro di vigneto, gli alberi di arance e San Giacomo a cavallo.

Ritorna alla luce appena fuori Caltagirone, una piccola masseria, come le tante che costellavano un tempo l’agro del catanese.

La struttura è all’800 e fu costruita attorno al palmento che ha funzionato fino agli anni ’80.  Le origini della tenuta, che conta in tutto 15 ettari, sono più antiche, risalgono all’epoca in cui i Normanni rendevano prospera la Sicilia. A pochi chilometri, in quella che poi venne chiamata contrada Saracena, Re Ruggero sconfiggeva, in una celebre battaglia, i mori con l’aiuto dei calatini e, come vuole la leggenda, di San Giacomo in persona che accorse in sella al suo cavallo. 

L’azienda agricola Viola si trova al centro di una piccola valle, in contrada Santo Stefano, ed è il sogno condiviso di una famiglia. La vita è scandita dal calendario agricolo e il sostentamento nasce da una filiera chiusa. Si producono l’olio, i formaggi, le conserve, si coltiva l’orto e da qualche anno si imbottiglia il vino, che è sempre stato al centro del mondo dei Li Rosi, tesoro tramandato dal padre Michelangelo ai figli Francesco e Michele oggi a capo dell’azienda, che è anche agriturismo (il primo, tra l’altro, ad essersi registrato in Sicilia come fattoria didattica), insieme alla loro mamma.  Teresa, è la padrona di casa. Abita in masseria, si occupa degli ospiti e prepara per loro confetture per un autentico dolcissimo risveglio (i golosi si tengano alla larga da quelle all’arancia e alle pere).

Pochissime le bottiglie prodotte, non superano le 4 mila, e solo le annate reputate “giuste” dai due fratelli. Una unica tipologia: uvaggio di Nerello Cappuccio e Syrah, coltivati in biologico. Sull’etichetta spiccano il nome del padre  e l’effige del patrono combattente di Caltagirone. A custodire il vino, il tappo a km0 e non trattato chimicamente, ottenuto dalle querce da sughero che popolano i 30mila ettari della riserva naturale “Bosco di Santo Pietro”. Dieci mesi di acciaio, 14 di alcol, e per coloro che sono attenti alla quantità dei solfiti, si è molto al di sotto dei 50 milligrammi per litro.

Lo stile è da vino quotidiano. La filosofia: quella di dargli il suo valore. Etico, prima di tutto. “Sincero e sano come si è sempre fatto qui, così è il nostro Don Michelangelo – spiega Francesco Li Rosi -.  Prodotto non per il commercio ma per gustare il buono che ci dà questa nostra terra”. Che viene curata e rispettata. L’azienda, non solo è interamente a regime biologico, è anche autosufficiente grazie allo sfruttamento dell’energia solare.


Francesco Li Rosi mentre degusta

Abbiamo assaggiato le annate 2009, 2010, 2012. In ciascuna, le percentuali dell’uvaggio variano in base a quello che esprimono i vitigni, per i Li Rosi il modo per non tagliare con la tradizione.  Il 2009, 80% Syrah e 20% Nerello Cappuccio, lo abbiamo versato nel calice 24 ore dopo l’apertura della bottiglia, prova del tempo per leggere meglio il progetto che sta dietro a questa etichetta. Si dimostra pieno di energia, con un bouquet ricco di spezie dolci, di note di cacao e mandorla su cui spicca la scorza d’arancia. Fresco al palato, con un buon nerbo acido. Setoso, concentrato e con tannini croccanti. In verità pronto, ma chi non vuole rinunciare alle sorprese che riservano l’evoluzione e la natura, può concedergli ancora uno, due anni. Il 2010, mantiene le stesse percentuali dei due vitigni del 2009, mostra una veste più fruttata con pennellate decise di mirtilli, ciliegia nera, ribes rosso, di frutta candita, sottobosco e spezie. I tannini sono dolci. Un vino dritto, pulito. Il 2012, 60% Nerello Cappuccio e 40% Syrah, ha un colore violaceo intenso, vivace. Profumato: mora, ciliegia nera, violetta, bergamotto. L’ingresso è morbido. Buona struttura, beverino. Ancora in piena evoluzione. A chiudere l’assaggio, la prima annata messa in bottiglia, la 2006, “più che altro un esperimento”, come precisa Li Rosi. Il primo step di valorizzazione di un passato che, come era prassi nell’era pre enologia moderna,  si risolveva nel vino sfuso.


Foto del vecchio palmento e della tenuta

Don Michelangelo, che adesso prenderà anche la rotta del Nord America, è un piccolo esemplare che va ad inserirsi in quel filone che mette al centro la cultura del vino “agreste”. “Vogliamo sostenere un modo di operare più vicino alla terra, più verace, senza rivoluzionare quello che abbiamo ereditato ”, conclude Francesco Li Rosi, impegnato nel vino solo a metà, nella vita conduce anche una comunità terapeutica per la riabilitazione di persone con disagi e disturbi psichici. 

Manuela Laiacona