Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 14 del 21/06/2007

PERBACCO: Vitigni, la fortuna di essere siciliano

21 Giugno 2007
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    PERBACCO

La tendenza è sempre più quella di impiantare varietà internazionali. Viaggio in due vigneti.jpgpuntate tra gli autoctoni dell’Isola

Vitigni, la fortuna
di essere siciliano

In passato, i vitigni coltivati in tutte le zone vitivinicole italiane, erano tantissimi, come testimoniano testi antichi che trattano della viticoltura nel nostro paese. Oggi molti di questi vitigni, cosiddetti autoctoni, sono o scomparsi o coltivati solo in qualche vecchio vigneto.

I vigneti italiani hanno subito, in questo ultimo mezzo secolo, uno stravolgimento varietale con forte diminuzione numerica dei vitigni coltivati localmente, spesso sostituiti e/o affiancati da vitigni importati soprattutto dalla Francia.
La produzione mondiale di vino, oggi, si basa sull’utilizzo di pochissime varietà di uva, rispetto a 50 – 100 anni fa. I vigneti di tutto il mondo e soprattutto quelli dei paesi che hanno intrapreso recentemente la vitivinicoltura (California, Australia, Argentina, Sud Africa, Cile) sono formati da pochissime varietà di uva da vino, quali lo Chardonnay, il Cabernet Sauvignon, il Merlot e pochi altri, i cosiddetti vitigni internazionali (anche detti migliorativi).
La diffusione ed il successo dei vitigni internazionali derivano dal fatto che essi, oltre ad avere delle qualità tecniche eccellenti, si adattano in quasi tutti gli ambienti in cui è possibile coltivare la vite. Si tratta, quindi, di vitigni di facile coltivazione, a cui la ricerca e la tecnica hanno dedicato tanto interesse e notevoli investimenti. In parallelo i vitigni autoctoni sono stati spesso trascurati, poiché, essendo fortemente dipendenti dal loro ambiente di origine, portati in altre zone non rispondevano alle esigenze quantitative e qualitative richieste dalle nuove tecnologie, e di conseguenza hanno perduto, nel tempo, interesse ed importanza.
La progressiva sostituzione di vitigni autoctoni con vitigni alloctoni sta comportando la perdita di vecchie varietà, adattate da secoli ad un particolare e specifico ambiente di cui sono parte integrante e dove, adeguatamente coltivati e vinificati, possono dare vini di spiccata tipicità. Se infatti tanti pregi vengono giustamente riconosciuti ai vitigni internazionali, alla loro indiscriminata diffusione viene imputato un certo “appiattimento” ed “uniformità” di gusto dei vini prodotti con queste uve, che spesso risultano simili anche se provenienti da zone lontanissime tra loro. Tra l’altro il consumatore medio è spesso portato ad apprezzare maggiormente i vini prodotti con i vitigni internazionali rispetto a quelli con vitigni autoctoni, poiché il suo gusto è più abituato a quella tipologia vinicola.
L’Italia, ed il sud in particolare, ha il maggior numero di vitigni autoctoni a livello mondiale. È in questa ricchezza varietale che si può trovare un’opportunità produttiva (cosa che in parte si sta già facendo) riscoprendo i tantissimi vitigni autoctoni presenti in ogni provincia italiana.
Questa auspicabile tendenza produttiva consentirebbe, inoltre, di scongiurare la perdita di un patrimonio viticolo ed enologico, per tipologie e variabilità, unico al mondo.
Nel settore enologico si è assistito, negli ultimi anni, ad un cambio repentino, senza una giusta ed attenta valutazione, di tipologia produttiva di alcune aree vitate.
In Sicilia, terra altamente e da sempre vocata per la produzione di vini rossi, si è passati da una prevalente produzione di vino rosso ad una di vino bianco, che oggi rappresenta il 75% dell'intera produzione regionale, in controtendenza con le richieste di mercato. La produzione enologica non può prescindere dallo studio del territorio, da un’indagine viticola ed enologica della zona, dalla conoscenza storica e culturale del luogo in cui si opera.

I vitigni autoctoni siciliani a bacca rossa

Il NOCERA
Vitigno autoctono della provincia di Messina, un tempo diffusissimo, oggi è ridotto a pochi ettari, soppiantato, oltre che dai vitigni etnei Nerello Mascalese e Cappuccio, da vitigni nazionali ed internazionali. Il Nocera entra a far parte, con il Nerello Mascalese e Cappuccio, nel disciplinare di produzione del Faro a Doc. Questo vitigno è stato anche “esportato” in Calabria con un certo successo e, a metà del secolo scorso, in Francia: Provenza e Beaujolais (patria del novello), dove si è diffuso con i nomi di “Suquet” e “Barbe du Sultan” (Pulliat 1879). Il Nocera a maturazione, ha grappolo lungo, mediamente serrato con acino medio, di forma ellissoidale di colore grigio-bluastro. L’uva di questo vitigno a maturazione è molto dolce e con un’ottima acidità.

Il PERRICONE
Questo vitigno era, tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, diffusissimo ed esclusivo, come varietà ad uva nera, della provincia di Trapani e Palermo ed era ben rappresentato, insieme ad altri vitigni ad uva nera, in quasi tutta la Sicilia. Successivamente, probabilmente a causa della solita infestazione fillosserica, si ridusse la sua coltivazione. Il Perricone, detto anche Pignatello, nel Trapanese, o Tuccarino, è oggi, purtroppo, poco diffuso, e non sembra trovi interesse tra i viticoltori, anche se rientra in alcune importanti DOC siciliane (Contea Di Sclafani, Delia Nivolelli, Eloro, Marsala: per il tipo Rubino) sia in uvaggio che in purezza. E’ auspicabile una sua maggiore diffusione poiché si tratta di una varietà molto adatta al nostro territorio isolano. Inoltre sembra avere delle ottime caratteristiche per la produzione di vini novelli. Ha grappolo lungo, spesso lunghissimo, (fino a 33 centimetri), cilindro-conico, di media compattezza. L'acino è grande e sferico, dalla buccia spessa ma poco resistente, molto pruinosa e di colore bluastro. L’uva, a maturazione, è di buon grado zuccherino e bassa acidità.

NERELLO MASCALESE
Il Nerello Mascalese, Niureddu mascalisi o Niureddu, è il vitigno principe autoctono della zona etnea. È stato selezionato dai viticoltori etnei, parecchie centinaia d’anni fa, a Mascali (Ct), paese alle falde dell’Etna. Questo vitigno entra nella costituzione dell’Etna Rosso a Doc per non meno dell’80%. È diffuso in tutta la regione etnea dai 350 sino ai 1.050 m.t. s.l.m. . A seconda del versante del vulcano in cui è coltivato e dal sistema d’allevamento, produce vini con sfumature e caratteristiche notevolmente diverse tra loro. Come tutti i vitigni autoctoni etnei, è a maturazione tardiva (2ª decade d’ottobre).
È un vitigno che opportunamente coltivato e vinificato dà origine a grandi vini rossi da invecchiamento in cui predominano sensazioni olfattive di fiori, tabacco e spezie, insieme ad una tipica gradevole tannicitá. Queste caratteristiche sono fortemente influenzate dall’andamento climatico dell’annata: gli stress del periodo estivo e l’eccesso di piovosità nel periodo autunnale condizionano enormemente la fisiologia della vite. Per questi motivi la qualità dei vini ottenuti dal Nerello Mascalese è molto legata alla zona di provenienza ed all’annata.
Nella zona etnea è facile trovare vecchie o vecchissime vigne ad alberello di Nerello Mascalese, arrampicate su tutto il monte con l’aiuto delle nere terrazze di pietra lavica, in cui è curioso constatare la mancanza di un sesto d’impianto geometrico delle viti.

NERELLO CAPPUCCIO
Il Nerello Cappuccio o Mantellato , (Mantiddatu niuru o Niureddu Ammatiddatu), vitigno autoctono della zona etnea, deve il suo nome al singolare portamento (cappuccio, mantello) della pianta coltivata ad alberello. D’origine ignota é stato da sempre presente, in piccole percentuali (15-20%), insieme al Nerello Mascalese, nelle vigne etnee e in altre province siciliane. Negli ultimi decenni ha registrato un continuo abbandono da parte dei viticoltori, tanto da rischiare l’estinzione.
Questo vitigno entra nella costituzione, insieme al Nerello Mascalese, del vino Etna Rosso a Doc, in misura inferiore del 20% e, insieme al Nocera, al Nerello Mascalese e ad altri vitigni minori, nella produzione del Faro a Doc. Vinificato in purezza dà vini pronti, da medio invecchiamento. Il Nerello Cappuccio ha grappolo medio, corto, piramidale con acino a forma sferoidale. L’uva matura, secondo la zona in cui è coltivato il Cappuccio, tra la seconda settimana di settembre e la prima decade d’ottobre.

NERO D’AVOLA
Il Nero d’Avola, detto anche Calabrese, si può considerare il vitigno a bacca rossa più tipico e interessante della Sicilia. Il sinonimo Calabrese è una “italianizzazione” dell’antico nome dialettale siciliano del vitigno “Calavrisi” che letteralmente significa uva (cala) di Avola o “venuto da Avola”. È stato selezionato dai viticoltori di Avola, comune in provincia di Siracusa, diverse centinaia d’anni fa, e da lì si è diffuso nei comuni di Noto (Sr) e Pachino (Sr) e successivamente in tutta la Sicilia tranne che sull’Etna. È un vitigno che opportunamente coltivato e vinificato da origine a grandi vini rossi da invecchiamento in cui le sensazione olfattive di frutta rossa, anche dopo lunghi anni, rappresenta la componente più importante e caratteristica. Entra nella costituzione dei vini Eloro a Doc e Cerasuolo di Vittoria a Doc e di altre Doc siciliane di più recente costituzione.
Si presta anche per la produzione di vini giovani e novelli, avendo un colore rosso con sfumature violette, davvero suggestivo, aroma di frutta rossa (prugna, mora) molto pronunciata e tannini non “allappanti”. Qualche decennio fa era utilizzato quasi esclusivamente per la produzione di vini da taglio (Pachino) ed esportato in grandi quantità, spesso via mare (porto di Marzamemi, nell’estrema punta orientale della Sicilia) in Italia (Toscana, Piemonte, ecc) ed all’estero (Francia, dove era anche detto “le vin médecine”).
Da qualche anno è stato “riscoperto” ed entra di merito, in purezza o in percentuale con altri vitigni, nella produzione dei migliori vini rossi siciliani. Il Nero d’Avola ha un grappolo non molto grande con un acino medio-piccolo leggermente appuntito. Il colore della buccia a maturazione è violetto intenso. L’acino appena pressato rilascia un succo dal colore rosso-violaceo, molto zuccherino e di buona acidità.

FRAPPATO DI VITTORIA
Non è sicura, anche se molto probabile, la sua origine nel Vittoriese (prov. Ragusa) dove è coltivato almeno dal XVII secolo. Vinificato in purezza dà vini con buona acidità, poco tannici e profumati, nei quali predomina la nota aromatica di marasca. Entra nella costituzione del Cerasuolo di Vittoria a D.O.C. con una percentuale massima del 40%, contribuendo a rendere più profumato ed elegante il Nero d’Avola. Era tempo fa molto diffuso nel siracusano con il sinonimo di Surra e nel Calatino, con il nome di Nero Capitano.

Salvo Foti
(1. continua)