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Vini e territori

La nuova vita del Rosso Conero: “Ma quale vinello…”

16 Settembre 2020
rosso_conero rosso_conero

di Alessandra Meldolesi

Prima denominazione delle Marche, istituita nel lontano 1967 e sdoppiata in Docg nel 2004, il Rosso Conero in questo durissimo 2020 si trova a registrare un bilancio contrastato in una regione dove i bianchi sembrano aver stravinto la partita a scacchi del vino (come del resto sul mercato nazionale).

Difficile, se non impossibile, misurarsi con l’esplosione qualitativa e mediatica del Verdicchio, ormai consacrato fra i migliori vini italiani. Certo il Conero è la meraviglia di sempre, con le sue rocce bianche a picco sul mare azzurrissimo, grazie ai fondali, e la chiesetta romanica appollaiata sulla salitina fra i boschi. Ma tutto intorno è cambiato: le Marche hanno perso quasi completamente prima gli zuccherifici, poi l’industria dei cosiddetti “bianchi”, gli elettrodomestici, trasmigrati altrove, mentre le scarpe rischiano di non tenere il passo. E il Covid-19 non ha certo giovato: è pur vero che la ristorazione è in gran spolvero, attorno a una capitale chiamata Senigallia; ma proprio per questo il calo dell’80% targato Horeca fa male. Anche perché non è l’unico segno negativo: in controtendenza sono solo la Gdo, con il suo doppio e triplo taglio cui i più si sottraggono, e la vendita diretta, soprattutto in presenza di agriturismi e affini, che segna il +20%.

L’occasione per fare il punto è stata la festa della denominazione, tenuta a Camerano in contemporanea con un pittoresco campionato nazionale di morra (“Fate la morra, non la guerra”), che ha saturato l’aria di interiezioni nostalgiche. Oggi il Rosso Conero e il Conero riserva vengono prodotti su 260 ettari da appena 15 aziende e 21 imbottigliatori: si tratta di un milione e mezzo di bottiglie, che però rischiano di accumularsi in cantina. I punti di forza non mancano, a cominciare dal nome, che può sfruttare il volano del turismo e dell’immaginario vacanziero. Il Rosso Conero rappresenta l’anomalia di un grande rosso mediterraneo prodotto sul mare, attorno a un autentico paradiso. E anche la dicitura “montepulciano”, superati gli ostacoli burocratici e le scaramucce con la Toscana, potrà presto essere utilizzata in etichetta, aiutando il vino sul mercato globale con la sua riconoscibilità. Ma il terroir non è solo una cartolina: questa è la zona di coltivazione più settentrionale del vitigno (talvolta mescolato a sangiovese), che poi scende in Abruzzo e lambisce la Puglia. Come già asseriva Giacomo Tachis, storico consulente di Umani Ronchi, solo qui esso offre esiti di compiuta eleganza. A propiziarla sono le rocce bianche, che riflettono luce e calore, e l’escursione termica delle moderate altitudini, con la complicità delle brezze marine.

Alla degustazione la scelta è stata ampia e variegata: grandi cantine, ma anche piccolissimi produttori con un ettaro di terreno; tradizionalisti e sperimentatori incalliti. Qualche tendenza tuttavia è emersa nitidamente. Il Conero non è un vinello, ha colore, alcol, estratto e soprattutto tannini in abbondanza. In questa epoca di voga dei “vini leggeri” e dei rossi floreali, in molti hanno deciso di fare a meno delle barrique nuove, che finiscono per appesantire ulteriormente il sorso, in favore di legno grande, acciaio e cemento. Anche i tempi di macerazione si sono consistentemente ridotti e le vendemmie anticipate. E di fatto fra gli assaggi più piacevoli c’erano alcuni vini base meno impegnativi e strutturati, che si lasciano facilmente immaginare a tavola, appena raffreddati con un piatto di pesce azzurro catturato nella baia. Né sono mancate le curiosità: accanto ai grandi classici come Campo San Giorgio di Umani Ronchi, proveniente dalle viti ad alberello di un cru, ineccepibile per eleganza ed equilibrio, l’energia incontenibile dei vini della Calcinara, dal nome dell’omonima contrada con le sue rocce bianche ricche di fossili marini. Sono ottenuti con metodo biologico da due fratelli enologi, Paolo, classe 1981, ed Eleonora, classe 1987, passati per importanti esperienze internazionali, rispettivamente in Nuova Zelanda, Cile e a Bordeaux.

Alberto Mazzoni, enologo e direttore dell’Istituto Marchigiano Tutela Vini, tuttavia non ha dubbi: il futuro è rosa. Solo le denominazioni capaci di diversificare, ascoltando il mercato, hanno un futuro. I big player del Conero fanno del resto anche altro, che si tratti di bianchi blasonati da altre zone o di attività ricettive di richiamo: sono Umani Ronchi, che ha diversificato nell’hôtellerie e nella ristorazione (nella metropolitana di Tokyo tre locali servono specialità marchigiane in abbinamento ai vini); Garofoli, celebre per i suoi pionieristici spumanti metodo classico; Moroder con il suo agriturismo; Mencaro e Le Terrazze. In molti si sono già misurati con l’ipotetica nuova tipologia, al momento non prevista dal disciplinare e sprovvista di nome, con esiti di grande piacevolezza. Sono vini da non stappare necessariamente per le feste, ma quotidianamente, anche e soprattutto durante i mesi caldi. Ma c’è chi pensa anche a rivoluzionare i contenitori, leggi bag in box e tappo stelvin, che da noi fanno ancora storcere il naso, ma all’estero sono stati ampiamente sdoganati.