Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Birra della settimana

Macco di fave e birra: un incontro di tradizioni

07 Aprile 2023
Macco di fave Macco di fave

Per la serie “umili ma belli”, signore e signori… Il “macco di fave”. Un piatto carico di significati e di storia: esponente della cosiddetta “cucina povera” (contadina in particolare) eppure straordinariamente ghiotto e nutriente. Una preparazione antica, tanto che si ritiene fosse conosciuta già in epoca romana; e insieme incredibilmente moderna, per il suo apporto nutritivo equilibrato (su 100 grammi ne contiene 9 di carboidrati, 5 di proteine e 2 di grassi). Una ricetta tipica della cultura siciliana (la Regione lo include nel proprio elenco dei Pat, Prodotti agroalimentari tradizionali) e che rappresenta la scuola isolana praticamente nella sua interezza: ad esempio, pur essendo la sua “culla” identificata con la cittadina di Raffadali (nell’Agrigentino), costituisce il pasto “rituale” con cui la ricorrenza di San Giuseppe viene festeggiata a Ramacca (in provincia di Catania). Insomma, un condensato non solo di sapori, ma anche di saperi e consuetudini.

IL MACCO E LA SUA “ARCHITETTURA”
Questa minestra, ulteriore motivo di pregio, presenta una costruzione tutto sommato semplice; i cui mattoncini fondamentali sono le fave secche decorticate: che ovviamente devono essere di buona qualità. Dopo essersele procurate, si comincia con lo sciacquarle e col metterle in ammollo per un paio d’ore; tempo utilizzabile per preparare intanto, in una pentola, un soffritto di carota, porro e aglio. Su questo “fondo” (aglio escluso, che va tolto) si riversano poi i legumi, mescolandoli, coprendoli con acqua calda e facendoli cuocere a fuoco basso fino a ottenere un composto cremoso e ben fluido (alla bisogna, occorre aggiungere ancora acqua e, comunque, non trascurare di tenere la massa in agitazione lavorando, di tanto in tanto, col mestolo). A questo punto il macco è pronto: da portare in tavola caldo e da rifinire, volendo, con foglioline di finocchietto selvatico e un filo di extravergine. All’assaggio, risulta di consistenza morbida ma coesa, di densità sensoriale elevata, di cospicua viscosità amidacea (con una modesta frazione lipidica), di tendenza gustativa essenzialmente dolceamara (tipica delle fave), priva di significative sapidità (se non quelle naturali dello stesso ortaggio protagonista). E adesso, che birra – o meglio che birre – serviamo in abbinamento? Ecco qua le nostre prove pratiche.

CON LA PILS
Si comincia a bassa fermentazione: sul quadrato sale “La Prima” ovvero la German Pils della scuderia “La Brewery”, a Bernareggio, in provincia di Monza e Brianza. Dorata e pulita alla vista, la sua gittata etilica (5 gradi) risulta sufficiente, col sostegno della bollicina vivace, a fluidificare e smaltire le pastosità amidacee del boccone; mentre quest’ultimo fa aderire la sua vena amara a quella della birra (conferita dalla diligente luppolatura), esercitando il maccanismo della sovrapposizione attenuativa e armonica. Infine l’olfatto: erbaceo nel piatto, erbaceo nel bicchiere (i luppoli, ancora); il che fa scattare un altro principio statisticamente premiante: quello della continuità odorosa tra morso e sorso.

CON L’AMERICAN PALE ALE
Non capita spesso di trovarsi nelle condizioni di poter tentare un approccio al piatto con tre birre tutte quante contrassegnate da una dominante amara. Questo è uno di quei casi; grazie appunto alla fattura gustativa del macco: dolceamara, appunto, e senza sapidità ficcanti. Il secondo “giro di giostra” convoca in scena così un’American Pale Ale: la “Hopper” targata “La Piazza”, marchio piemontese di Torino città. Ambrata e di media gradazione (siamo sul 5.5%), presenta, rispetto alla bevuta precedente, alcune analogie: una paragonabile capacità di gestione della materia amidacea e una simile progressione palatale, dolceamara essa stessa; logico che le dinamiche combinative col boccone producano effetti a loro volta comparabili. Di diverso, nel bicchiere, abbiamo due elementi: il primo è un profilo sensoriale più tendente a certe tostature (che si saldano, in continuità gustolfattiva, con quelle che la minestra può far affiorare in virtù dei processi di cottura, specie nella fase finale, di maggiore coesione della crema di legumi); il secondo fattore di differenziazione, poi, è un taglio odoroso dettato anche da direzioni agrumate (arancia), fruttato-esotiche (mango) e balsamiche (eucalipto), con queste ultime a gettare un interessante “ponte di allineamento” nell’agganciare l’apporto eventuale, a guarnire il macco impiattato, del finocchietto selvatico…

CON LA DOUBLE IPA
Restiamo nel recinto delle tipologie americane: e lo facciamo con la “Larkin Street”, vigorosa Double Ipa di casa “Porta Bruciata” (Rodengo Saiano, Brescia). Un carattere organolettico, il suo, evidentemente più “in linea” rispetto alla birra che l’ha preceduta: con le differenze di un colore più chiaro (dorato) e quindi di un timbro meno tostato; nonché di uno slancio alcolico decisamente più veemente, giacché nel suo motore rombano ben 8 gradi di potenza. Ne deriva un’ancora superiore capacità di diluizione della massa amidacea del macco; e un intreccio olfattivo boccone-sorso nel quale il secondo – con le sue timbriche da ananas, arancia e (di nuovo) eucalipto – replica in gran parte le regole d’ingaggio viste all’opera con la “Hopper”, a patto (chiaramente) di avvalersi, anche qui, dell’opzione consentita ricorrendo al finocchietto in fase di rifinitura del piatto. Bingo, insomma: e salute!

BIRRIFICIO LA BREWERY
Viale delle industrie, 35 – Bernareggio (Monza e Brianza)
T. 039 9633420
info@la-brewery.com
www.labreweryshop.com

BIRRIFICIO LA PIAZZA
Via Durandi, 13 – Torino
T. 011 19709642
brewpub@piazzadeimestieri.it
www.birrificiolapiazza.com

BIRRIFICIO PORTA BRUCIATA
Via Industriale, 16 – Rodengo Saiano (Brescia)
T. 030 6157122
info@portabruciata.it
www.portabruciata.it