Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 203 del 03/02/2011

LA MANIFESTAZIONE Mangiare in dialetto siciliano

31 Gennaio 2011

LA MANIFESTAZIONE

Ciccio Sultano a Identità Golose presenta il cibo di strada palermitano con varianti iblee. Dalla trippa alle lumache, dai ricci di mare alla “caldume”, trionfo di frattaglie di carne

Mangiare in dialetto siciliano


Da sinistra Francesca Barberini, Ciccio Sultano e Vincenzo Cascone

Ciccio Sultano, presentato alla settima edizione di Identità Golose da Francesca Barberini, grande appassionata dell’enogastronomia siciliana, ha illustrato il suo “Mangiare in dialetto”, progetto ideato insieme a Vincenzo Cascone

per il recupero della più autentica tradizione culinaria siciliana. In apertura un video girato per le strade e i borghi di Palermo ha anticipato, con suoni e immagini incalzanti, il tema dell’incontro.

“Mangiare in dialetto – spiega Sultano – è un progetto la cui idea è stata presentata per la prima volta quattro anni fa proprio ad Identità Golose, e che ha come protagonista la nostra forma di denuncia contro la perdita della tradizione siciliana del cibo di strada”. Perché, se mangiare è cultura, in Sicilia l’espressione più verace di questo patrimonio parla in dialetto, ed ha nomi come “quarume”, “zirene”, “sfinci”, pani cà meusa”, “mussu”, “stigghiola”, “pani cunsatu”, “vavaluci”, e così via.

“Per il nostro lavoro di ricerca – continua Sultano – abbiamo scelto Palermo, città emblema della complessità del mediterraneo, amalgama e concentrato di culture di epoche e provenienze tanto diverse e che oggi costituiscono l’humus della tradizione del cosiddetto “manciuliari”, versione nostrana delle tapas iberiche o del più modaiolo finger food. Con la particolarità che, in Sicilia, i luoghi deputati a questa pratica hanno un codice composto da una gestualità rituale, quasi sacra, dove il cibarsi si accompagna spesso e volentieri alla pratica abituale del “curtigghiu”, ovvero lo spettegolare tra persone che si incontrano giornalmente per mangiare un boccone insieme”.


“Caldume” con “stimpirata”

La “variante Sultano” del cibo di strada si articola in tre percorsi: “passeggiata in pescheria”, “il disagio della lumaca” e il “caldume”. “Passeggiata in pescheria  – racconta Sultano –  trae ispirazione dalla preparazione di un pranzo insieme a mia figlia con ingredienti avanzati nella cucina del ristorante, dopo la consueta spesa mattutina al mercato di Catania: trippa tagliata a listarelle e polpo passati in piastra e conditi con olio e limone, ricci di mare crudi e infine soffritto di funghi sfumati con brodo di pollo”. “ La seconda ricetta – continua Sultano – è un ricordo che conservo di me bambino, quando davo una mano nel lavoro dei campi. Per pranzo usavamo raccogliere le lumache che trovavamo abbondati sui terreni e buttarle vive su un fuoco improvvisato con legna e carbone. Il ricordo di quel sapore è ancora molto forte e anche la sensazione riflessa del “disagio” cui costringevamo le lumache durante la cottura, e che era manifestato da una copiosa, immediata produzione di bava”. Nella sua variante Sultano ripassa le lumache in abbondante mollica abbrustolita e alterna le lumache nel piatto a cicale di mare crude e purè di patate. Infine l’essenza opulenta del cibo di strada: il “caldume”. Per la sua preparazione Sultano usa diverse parti cartilaginee insieme a lingua e cuore, tutto soffritto e arricchito nella sua variante dal tocco locale di scaglie di cioccolato di Modica, cotto sottovuoto per almeno 24 ore e accompagnato dalla “stimpirata” modicana, ossia assaggi di caponata, polpette di melanzane ed altri piccoli bocconi, che nell’uso modicano vengono offerti agli ospiti in un clima di convivialità per scambiare due chiacchiere a tavola.

“Trasmettere la memoria storica della tradizione siciliana del cibo di strada, – conclude Sultano – proponendo questi piatti anche nell’alta ristorazione,  è importante per contrastare l’estinzione di antichi mestieri che rischiano di scomparire e rendere evidente la verità, spesso ancora non del tutto svelata, della storia della nostra identità in cucina”.

Daniela Corso