Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 44 del 17/01/2008

PER BACCO L’antica vitivinicoltura etnea

17 Gennaio 2008
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    PERBACCO

Le pratiche enologiche, le abitudini, la “filosofia produttiva”, finalizzata più alla qualità, che etna_cratere.jpgalla quantità, raccontate da due cronisti del tempo

L’antica vitivinicoltura etnea

Tra i tanti studiosi che si sono interessati della vitivinicoltura etnea, alcuni, soprattutto nel periodo a cavallo tra il 1700 ed il 1800, hanno lasciato una dettagliata descrizione delle pratiche viticole ed enologiche allora in uso nella zona.

Tra questi, interessanti sono gli scritti del toscano Sestini e dell'acese Costarelli. Il Sestini, proveniente dalla Toscana, regione di grande fama enologica, è spesso sorpreso dalla razionalità e dalla particolarità della vitivinicoltura etnea. Egli, nella sua trattazione, fa notare la vocazione, intrinseca, dell'ambiente etneo alla viticoltura: “Le terre di Mascali […] sono tutte nericcie, ed altro non sono se non che lo stritolamento, o rapillo delle lave vomitate dall’Etna, o sia Mongibello […] e tali terreni sono reputati ottimali per la piantazione delle viti, o vigne, per essere abbondanti di particelle nitrose, e sulfuree, non ostante che il suolo vada ripieno di grosse pietre vulcaniche dell'istesso monte, dimostrando l'esperienza, come tali terreni siino adatti per formarvi delle vigne”.
I suoi appunti sono molto precisi e completi, quasi un trattato di vitivinicoltura, in cui descrive tutte le fasi e le pratiche viticole locali partendo dall'impianto del vigneto: “Il tempo in cui si suol praticar di piantare i magliuoli in tal Territorio è per lo più verso gli ultimi di Gennajo e i primi di Febbrajo […]. Situato in tal guisa il Sesto, o sia ordinato così il quadro, passano a far tanti buchi con un palo di ferro ben lungo, alla profondità di palmi 3 in 4 circa, e fatti che questi sono, passano a mettere i magliuoli, riempendo il buco di altra terra, che essi chiamano latina o stranea, cioè terra non volcanica ma d'altra qualità, e più grassa […]. I magliuoli vengono piantati distanti l'uno dall'altro da palmi 4 3 3/4 in perfetta quadratura”.
Dopo più di due secoli il periodo d'impianto del vigneto nella regione etnea è sempre lo stesso così come le operazioni ed i gesti che accompagnano la messa a dimora delle piantine di vite. Anche la terminologia utilizzata, dagli anziani viticoltori, è rimasta pressoché invariata. Questo dipende, in parte, anche dal fatto che sull'Etna, data l'orografia accidentata dei terreni, è molto difficile meccanizzare le operazioni colturali, che per forza di cose devono essere svolte manualmente.
Non essendo ancora scoppiato il problema fillossera, chiaramente Sestini non fa nessun riferimento alla pratica dell'innesto della vite americana con quella europea. Relativamente alle cure post impianto Sestini scrive: “Il secondo anno poi della piantagione […] fanno nel principio dell'inverno un fosso, a guisa di conca all'intorno di ogni magliuolo, con la zappa[…] e dopo ciò adattano ogni magliuolo una piccola canna, per legarvi i novelli germogli[…]. In questo secondo anno, si può seminare tra la vigna dei Fagiuoli, e altri legumi, come infatti vien praticato per percepirne dal terreno qualche utilità”.
In quest'ultima frase, Sestini, si riferisce al sovescio, fatto per apportare azoto e sostanza organica al terreno vulcanico, che né è spesso carente. Il sovescio è una pratica ancora oggi molto in uso nelle vigne etnee, fatta, oggi, solitamente non con il favino (fagiuoli), ma con il lupino, perché quest'ultimo meglio si adatta ai terreni sub-acidi etnei.

vitivinicoltura_delletna.jpgSestini nota l'uso diffuso dell'epoca di mettere insieme, nel vigneto, diverse varietà di uva da vino: “Una nuova vigna è composta da magliuoli di differenti specie d'uva, siano bianche, siano nere […]. Vi si piantano oltre il Nigrello, alcuni magliuoli d'uva detta Barbarossa, Moscatella Nera, detta dai Siciliani Moscadellone, della Mendella, della Guarnaccia, e della Gerosolimitana nera […]. I magliuoli poi delle uve bianche sono […] Catarratti, […] attissimo alla navigazione, Inzolie, Moscatelle, Minnella, Guranaccia bianca, Verdisi, Malvagia, Nocellara, Gerosolimitana bianca e soprattutto Caricante…..che non viene ad addolcirsi perfettamente”. Quest'ultima espressione può essere riferita al fatto che il Carricante rimane sempre, per sua natura, con una certa vena acida.
Ma il toscano puntualizza pure il fatto che vi è una tendenza a specializzare i vigneti con una sola varietà di uva da vino, il Nerello Mascalese (Negrello): “Ma in generale i mascalesi nel piantare, o creare di nuovo una vigna, si servono del solo Negrello, ch'è l'uva la più appropriata a produrre i vini rossi in maggior quantità, e di qualità buona, e di durata, generosi, spiritosi, e atti alla navigazione”. Fondamentale, all'epoca, era che il vino fosse atto alla navigazione, qualità allora importantissima per poterlo esportare e ricavare così un maggior profitto.
Relativamente alla durata dei vigneti così si esprime Sestini: “Usata la giusta attenzione dall'Agricoltore, e data la buona coltura alle vigne, con tali cautele si possono queste sostenere per più di cento anni, ciò intendendosi con sorrogare le viti, che vanno mancando, per mezzo di propagini”. Vigneti centenari, allevati ad alberello, sull'Etna non sono oggi un'eccezione, così come la pratica della propaggine per ripristinare le fallanze, ossia le viti morte. A Sestini, attento osservatore e studioso, non sfugge l'importanza, della “buona coltivazione” del vigneto, e della potatura delle viti: “La buona coltura adunque, e tutta quella diligenza, che richiede una vigna già formata, consiste primieramente nella “Pota”, o sia Potatura, che fanno nella Luna mancante del mese di Gennajo […] Il primo anno ne lasciano due (speroni) che domandano le ‘spalle’, oppur orecchia di Lepre, dalle quali nascono i tralcj, che portano a tempo prorio a due occhi, uno buono, e l'altro cieco, per fare il frutto in poca quantità, ma migliore”. È raro che un anziano viticoltore oggi poti il vigneto se non vi è luna calante. Sestini rimane particolarmente sorpreso da come i vignaioli lavorano il terreno: “Indi passano a far a ciascun ceppo di vite la sua fossa, o conca ben ampla e profonda, acciò i raggi solari con il loro riverbero possino con più facilità maturare i grappoli delle uve. La terra poi, che levano dal fare dette fosse, la collocano in tanti monticini, che restano in mezzo a un filare all'altro, ciascuno in giusta situazione, e parallello alle fosse, il che reca meraviglia osservandoli”.
Ed ancora Sestini dice: “Levano tutte quelle messe che si ritrovano nel fusto della vite, ed anche quelle […] che chiamano ‘mangioni’, lasciando i buoni, che ‘magistrali’ appellano, i quali devono produrre il frutto, che son due per ogni materia lasciata al potare, che chiamano ‘spalle’, alle quali lasciano due occhi per ciascuna […]. Dove le viti si fanno più frondose, nella stagione calda con tutta destrezza vanno levando in qua ed in là le foglie, per dar campo al sole di ben maturare l'uva co' suoi raggi. Allorché si avvicina il tempo di vendemmiare, alcuni giorni prima vanno spampinando quasi tutta la vite, per poter prendere il frutto una perfetta maturità”. Il toscano, nella sua trattazione, parla pure dell'importanza che ha il vecchio vigneto, aspetto oggi rivalutato, ai fini della qualità del vino: “L'esquisitezza del vino, che dà la vigna, quando è vecchia, mentre ‘vigna vecchia fa buon vino’, secondo il detto degli stessi Siciliani”.

Tutto quello che riporta Sestini nelle sue memorie è ancora oggi normalmente praticato nelle vecchie vigne etnee, i gesti, gli usi, la terminologia. È sorprendente il fatto che oggi, questa antica “filosofia produttiva”, finalizzata più alla qualità, che alla quantità, è tornata ad essere attuale.
Sestini ci ha lasciato pure delle indicazioni sulla produzione quantitativa dei vigneti etnei, egli scrive: “Un migliajo di piante di viti danno il prodotto di 12, 15 e fino a 20 salme di vino”. È uso comune e diffuso sull'Etna esprimersi, riferendosi all'estensione del vigneto, in migliaia di viti (“migniara”) che corrispondo ad una superficie vitata di 1.200-1.500 mq. Come misura per il mosto ed il vino, ancor oggi, si usa parlare di “salma”. A tal proposito dice Sestini: “La misura, con la quale si misura il vino, generalmente parlando, si chiama Salma. In Mascali vi sono due misure, una dicesi da mosto, e l'altra da vino chiaro. Quella del mosto contiemne 1° Quartare, ed ogni Quartara è composta di Quartucci 18 1/2 circa, ed ogni Quartuccio di Libbra una e mezzo, o siano once 18 di vino. Quella poi da vino chiaro contiene due Barili, ed ogni Barile è di 4 Quartare, ed ogni Quartara di ventuno Quartucci, ed ogni Quartuccio di 18 Oncie, il che si ha per ogni Salma il peso di cento Rotoli; essendo ogni Rotolo di 30 Once”.
Una salma di vino (= a 0,8 salme di mosto) corrisponde a circa 68,8 litri. Quindi secondo Sestini 1.000 viti producevano mediamente da 12 a 15 salme di vino (6.000-6.500 litri per ha), quindi una vite dava circa 0,9 litri di vino, cioè a dire la quantità per ceppo cui oggi tende la viticoltura di alta qualità. Infatti si usa dire una bottiglia di vino per ogni ceppo di vite.

Salvo Foti
(1. continua)