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Scenari

Dazi al 15% con gli Usa? Il mondo del vino protesta. Ma ancora non è certo come andrà a finire

28 Luglio 2025
L'incontro fra Ursula von der Leyen e Donald Trump L'incontro fra Ursula von der Leyen e Donald Trump

Il settore agroalimentare potrebbe finire nella clausola “zero for zero”. Uiv fa i conti all’Italia se l’agroalimentare non beneficerà di questa possibilità. “Danno ai produttori di oltre 300 milioni in un anno e Pil in calo”

L’accordo sui dazi al 15% con gli Stati Uniti non piace al sistema produttivo dell’agroalimentare italiano. Dal mondo del vino a quello delle carni, passando alla pasta, si attendono di conoscere i dettagli di quanto ha raggiunto Ursula Von der Leyen domenica 27 luglio in Scozia.

Quali prodotti dell’agroalimentare saranno sotto la clausola “zero for zero” applicata anche per prodotti chimici, farmaci e prodotti per semiconduttori? Al momento si sa molto poco ed anche questo è un elemento che getta ancora incertezza in un contesto che resta molto poco definito.

Secondo il Centro Studi di Confindustria, il dazio del 15% ridurrà l’export italiano verso gli Stati Uniti di circa 23 miliardi di euro nel 2025, pari a oltre un terzo del totale esportato nel 2024.

Questo si tradurrà in una contrazione del PIL dello 0,4% nel 2025 e dello 0,8% nel 2026, con un impatto occupazionale stimato in 40.000 posti di lavoro persi nel 2025 e 80.000 entro il 2026, concentrati nelle piccole e medie imprese (PMI) delle filiere manifatturiere e agroalimentari. La svalutazione del dollaro amplifica l’effetto, rendendo i prodotti italiani fino al 25-30% più costosi per i consumatori americani.

Il mondo del vino è preoccupatissimo. “Il danno che stimiamo per le nostre imprese è di circa 317 milioni di euro cumulati nei prossimi 12 mesi, mentre per i partner commerciali d’oltreoceano il mancato guadagno salirà fino a quasi 1,7 miliardi di dollari. Il danno salirebbe a 460 milioni di euro qualora il dollaro dovesse mantenere l’attuale livello di svalutazione. Facciamo sin d’ora appello al governo italiano e all’Ue per considerare adeguate misure per salvaguardare un settore che grazie al buyer statunitense era cresciuto molto”, ha detto il presidente di Unione italiana vini (Uiv), Lamberto Frescobaldi. “Secondo le nostre analisi, a inizio anno la bottiglia italiana che usciva dalla cantina a 5 euro veniva venduta in corsia a 11,5 dollari; ora, tra dazio e svalutazione della moneta statunitense, il prezzo della stessa bottiglia sarebbe vicino ai 15 dollari. Con la conseguenza che, se prima il prezzo finale rispetto al valore all’origine aumentava del 123%, da oggi lieviterà al 186%”.

“Non ci si può ritenere soddisfatti per questo accordo”, ha detto il segretario generale di Unione italiana vini, Paolo Castelletti, “un dazio al 15% è certamente inferiore all’ipotesi del 30%, ma è altrettanto vero che questa tariffa è enormemente superiore a quella, quasi nulla, del pre-dazio. Rispetto ai competitor europei, l’Italia rischia inoltre di subire un impatto maggiore, da una parte per la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna; dall’altra per la tipologia dei prodotti del Belpaese che concentrano la propria forza sul rapporto qualità prezzo, con l’80% del prodotto che si concentra nelle fasce “popular” – quindi a un prezzo franco cantina di 4,2 euro al litro – e con solo il 2% delle bottiglie tricolori collocato in fascia superpremium”.

Secondo l’Osservatorio Uiv, il rischio – qualora non si attivasse una riduzione dei ricavi lungo la filiera, che rappresenta comunque un danno – è di trovarsi, a fine 2026, vicino ai valori espressi nel 2019. Per Uiv, ben il 76% (l’equivalente di 366 milioni di pezzi) delle 482 milioni di bottiglie tricolori spedite lo scorso anno verso gli Stati Uniti si trova in “zona rossa”, con una esposizione sul totale delle spedizioni superiore al 20%. Aree enologiche con picchi assoluti per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop al 35%, quelli piemontesi al 31% così come il Brunello di Montalcino, per chiudere con il Prosecco al 27% e il Lambrusco. In totale sono 364 milioni di bottiglie, per un valore di oltre 1.3 miliardi di euro, ovvero il 70% dell’export italiano verso gli Stati Uniti.

Altri settori sembrano maggiormente colpiti come quello dei produttori di carni e salumi. Un mercato, quello Usa, che rappresenta la terza destinazione per l’export di salumi made in Italy, con oltre 20.000 tonnellate esportate (+19,9%) e un giro d’affari di 265 milioni di euro (+20,4% rispetto al 2023). Secondo Assica, Associazione industriali delle carni e dei salumi, l’organizzazione nazionale di categoria che, nell’ambito di Confindustria, “l’incremento tariffario rappresenta un freno significativo per le nostre imprese, che già operano in un contesto globale estremamente instabile”. “A subire le conseguenze saranno sia i produttori italiani sia i consumatori statunitensi, che dovranno affrontare un inevitabile aumento dei prezzi”, ha commentato Lorenzo Beretta presidente dell’associazione.

“Il mondo della pasta negli Usa è stato già penalizzato con l’Antidumping nel 1992 per preservare quel mercato dall’entrata di pasta italiana e turca che sono i più grossi importatori”, racconta Margherita Tomasello presidente dell’accademia siciliana della pasta e presidente del terziario donna di Confcommercio Palermo, “un ulteriore 15% in più ricadrà sui consumatori. Questo è un duro colpo su tutto il settore e soprattutto si vive di incertezze. Il mercato Usa è forse dopo il mercato tedesco il più importante in assoluto. Un momento difficile e incerto. Anche l’Unione Pastai è molto preoccupata. Dobbiamo capire cosa mettere in campo in questo momento, ma non è facile”.

“Un dazio del 15% è pesante, certamente. Ma non è la fine del mondo. È un ostacolo superabile, se ci presentiamo uniti, flessibili, pronti ad adattarci. Il vero nodo oggi è il cambio, che penalizza fortemente le nostre esportazioni. Ma passerà. La tempesta si placherà, e dobbiamo farci trovare pronti, solidi, presenti. Non possiamo fermarci. È il momento di raddoppiare gli sforzi e andare avanti, con intelligenza e determinazione” dice Edoardo Freddi alla guida di una azienda italiana di export management del settore vino. C’è chi invoca “una strategia nazionale che combini incentivi immediati per i produttori, diversificazione dei mercati di sbocco e un dialogo bilaterale molto più assertivo con gli USA per proteggere le nostre eccellenze e bilanciare i rapporti”, come sostiene per esempio Silvana Ballotta, ceo di Business Strategies, società molto attiva nel supporto all’internazionalizzazione delle imprese italiane.

Quello che è sicuro, come hanno notato alcuni commentatori, non ultimo Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera, è che il 27 luglio sembra un giorno da dimenticare per l’Ue e le sue capacità di negoziare. “La presidente dell’Unione europea, che mai è stata ricevuta nello studio ovale della Casa Bianca, ha accettato di andare in un resort di proprietà del tycoon in quel Regno Unito che ha scelto la Brexit. Su un campo da golf, tra una buca e l’altra”, scrive De Bortoli nella sua rubrica on line “Frammenti”.