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Scenari

Orange wine, fine di una moda

12 Ottobre 2025
I riflessi aranciati di un Orange Wine I riflessi aranciati di un Orange Wine

Che fine hanno fatto quei vini “contro” che volevano cambiare l’enomondo? Cronaca di sogni, di delusioni e di quel che resta

Ve li ricordate, gli orange wine? Per anni ho speso in orange wine – che non mi piacevano – soldi che non avevo (non sono il mio maggior rimpianto economico, ci mancherebbe) e ora sono arrivato alla conclusione che berli è stata una posa: li bevevo per il loro capitale simbolico, perché sentirsi diversi, più fighi e più cool era giusto, o quantomeno necessario.

Non erano (quasi) mai buoni, questi vini macerati e ambratissimi, ma era bellissimo sedersi in locali shabby dove dominavano le Converse e le t-shirt dei Joy Division scolorite; parlando di film di Terrence Malick e Harmony Korine, le serate scorrevano serene, almeno fino al momento del conto, che lasciava il saldo delle nostre PostePay Evolution délabré come gli interni delle enoteche in questione.

Cosa erano gli orange wine, o macerati, alfieri di quella Amber Revolution raccontata benissimo nel libro di Simon Woolf che ora uso solo come fermaporta?

Erano bianchi vinificati come rossi, ovvero con lunghe macerazioni sulle bucce, che davano vita a liquidi dai molteplici pantoni dell’arancione (tra il 1555 C e il 1595 passando per il celebre Peach Fuzz), con tannini ruvidi, olfattive diaboliche e poco invitanti, che sapevano poco di vino e molto di orange wine, appunto.

Era bello berli perché erano contro: contro l’omologazione dei Gewürztraminer pallidi da maggioranza silenziosa, contro i bianchi mortalmente filtrati, appiattiti e intercambiabili nel colore e nell’olfatto, vittime di filtrazioni criminali e lieviti caraibici selezionati. Erano contro quello che beveva la massa.

Versavamo vinoidi arancioni seguendo l’adagio di un poeta underground bolognese degli anni zero: “la massa è pirla, non seguirla”. Esprimevamo nel torbido la nostra fiera diversità, il rifiuto del conformismo, e con liquidi color rivolta brindavamo a un (eno)futuro più libero e giusto.

I sogni però non sono mai a buon mercato, quindi via a stappare etichette disordinate ma vive e piene di energia, in nome dell’unica leva di marketing che porta ancora, sempre, soldi nell’Italia del food: quella del vino fatto come una volta, che quindi non aveva prezzo, perché erano l’emozione e l’energia cosmica che regalavano a mente e corpo a non avere prezzo; e perché quei numeri scritti in Uniposca tremolante sul collo della bottiglia non avevano l’aura di un prezzo ma di un valore.

La massa dei non iniziati, da un lato, beveva il pallore asettico; quella massa di umanità conformista e conforme che non aveva a casa un vinile dei Neutral Milk Hotel, e dall’altra noi, iniziati a un eno-linguaggio antico e pure modernissimo, nostalgicamente futurista.

Certo, erano gli anni in cui Instagram era ancora still, senza le storie, e una foto controluce di un calice gonfio di vinoide arancione nelle camere dei nostri iPhone ricondizionati poteva regalare post IG e diverse decine di like (di cui almeno quattro di ragazze).

Questo loro essere contro – e insieme drammaticamente Instagram friendly – assieme ovviamente a una pletora di enotecari con le Vans, distributori rampanti e winemaker barbaramente fotogenici, ha creato per alcuni anni un corto circuito virtuoso, almeno economicamente, per più di un soggetto.

Poteva durare per sempre? No, e infatti non è durato. Non appena un manipolo di produttori in camicie di flanella con barbe castriste, parlando di energia, anfore georgiane e ritorno ai riti ancestrali di purezza, basso intervento e (quasi) assenza di solforosa, è riuscito ad alzare in modo considerevole i prezzi delle bottiglie, anche le aziende più grandi hanno preso nota. In poco tempo, nelle brochure patinate in Pdf delle grandi aziende – come di quelle piccole, passando per le cooperative sociali – si è aggiunto un vino diversamente ambrato, spesso a prezzo molto più accessibile di quelli che noi bevevamo dagli enotecari con le Vans. In poco tempo, noi con le tote bag dei festival del cinema scandinavi abbiamo con sommo disappunto iniziato a vedere calici colmi di liquido dal pantone diversamente orange nei locali “normali”, quelli per i non iniziati, senza biciclette legate davanti, dove la gente andava addirittura in automobile.

Gli orange wine, quei vini “contro” che volevano cambiare l’enomondo, renderlo più puro, bello e connesso con le energie cosmiche, erano diventati solo un altro segmento di mercato, una nuova linea di prodotto da vendere, e il loro capitale simbolico era scomparso. Il vino da iniziati era diventato mainstream: bevevano orange wine anche quelli che portavano le Hogan.

Certo, è stato bello, in certi aperitivi di maggio, roteare i calici con dentro vini che allora sapevano di futuro, anche se poi, dopo i primi sorsi, era davvero difficile provare trasporto; era bello sentirsi connessi con una storia che iniziava millenni fa, in Georgia (non quella di Ray Charles, ma di Merab Dvalishvili).

È stato bello sentirsi parte di una rivoluzione, anche se non lo era; sentirsi diversi, iniziati e più fighi. Ma forse, se avessimo davvero dato ascolto ai nostri sensi, se avessimo davvero bevuto quei vini senza fare foto, sorvolando sulla nostalgia posticcia e sull’afflato anticonformista, avremmo capito che dentro i bicchieri non c’era quasi mai qualcosa da ricordare per sempre, ma vini omologati, a loro modo, proni anche loro a una sintassi imposta, non meno totalitaria di quella dei bianchi “normali”.

Con un po’ di onestà intellettuale in più, e qualche ampere di ingenuità in meno, avremmo capito che le cose fatte come una volta sono buone solo di rado, e solo quando sono fatte in buona fede e con tantissima tecnica e passione, mentre il più delle volte nei vini di quelle notti mancavano entrambe.

Cosa è rimasto di quel mondo, di quei sogni un po’ datati ma sempre tendenti al favoloso? Foto meravigliose, con umani dai nomi strani e dalle storie lunghe, mai rassegnati davvero alla svolta elettrica di Bob Dylan, e bottiglie di vino dalle etichette (eh sì, prima o poi dovevo scriverlo) davvero funky.

Eno-ricordi pochi, ma ricordi di notti il cui colore oscillava tra l’indelebile e il bellissimo.