Walter De Battè e Antonello Canonico (l'Acino Vini)
Vino naturale, biologico, biodinamico, artigianale, libero, giusto, vino di territorio, viticoltura pulita, viticoltura etica, sostenibile.
Insiemi e sottoinsiemi di un modo di fare il vino che sfugge alla categorizzazione assoluta, alla definizione tout court. Cruccio “semantico” per chi racconta questo mondo e i suoi protagonisti e per chi soprattutto vende i loro vini, in un momento storico in cui la regola del business e del comunicare vis à vis, sulla carta, nell’etere o nella rete, almeno in Italia, ancora vuole l’etichetta, l’identificazione della fazione o del gruppo a cui si appartiene, il bollino, il distintivo.
La questione del vocabolario non è invece per nulla sentita proprio da chi sta dall’altra parte, da chi lavora in vigna e in cantina. Qualsiasi appellativo per chi convive ogni giorno con la vite e interpreta il territorio è un abito che va stretto o un nome aleatorio. Dinnanzi al mare dei sinonimi, che poi sfiora solamente il terzo soggetto di questo sistema, il consumatore medio, avvicinatosi timidamente solo adesso al concetto di biologico (anche se il trend dei consumi di questa nicchia riporta il segno positivo), c’è una unica cosa per i piccoli produttori/vigneron che parla chiaro, in modo incontrovertibile: il vino. A Parlano i Vignaioli, l’appuntamento che si è svolto nei giorni scorsi a Bari dedicato al vino naturale e artigianale, alcuni dei produttori presenti hanno, appunto, detto la loro. Hanno espresso il proprio punto di vista su quello che fanno, chiarendo una volta e per tutte il senso del progetto che portano avanti, gettando luce sul piano dove si collocano, anzi dove il mercato del vino e quello mediatico vogliono a tutti i costi collocarli.
Federico Orsi
Federico Orsi – (San Vito – Monteveglio, Bo): “Il termine naturale, o ancora meglio artigianale vanno bene anche se questa categoria è debole e non comprende esattamente tutto quello che facciamo. Prima di tutto siamo viticoltori, e siamo sia agricoltori che artigiani. Si può parlare invece di vino di territorio. Facciamo vini distinguibili, che sono la sintesi del territorio, cioè della cultura e della tradizione. Ecco, quest’ultimo è il principio che riconosco di più. E poi mi preme un appunto. Più convincere, usando definizioni, i consumatori a bere i nostri vini, ci farebbe piacere che altri colleghi facessero un passo indietro, tornassero a come si faceva il vino una volta e questo, ovviamente, deve tenere conto di una domanda che eventi come questo aiutano a incrementare. Oggi si parla tanto di vino naturale dappertutto. Chi fa i grossi numeri sta osservando questo trend, ci deve fare i conti. Il rischio è che si confondano le acque. Basti pensare che oggi il vino senza solfiti è diventato il cavallo di battaglia dell’industria del vino”.
Stefano Bellotti (produttore a Novi Ligure, Al) – “Le parole a volte servono per capirsi, a me in particolare non è che la definizione naturale mi piaccia particolarmente. Ad un certo punto ci siamo messi d’accordo su questa cosa, più o meno tutti sappiamo cosa vuol dire e ce la facciamo andare bene, sappiamo cosa significa lavorare in vigna. Ci sono tanti metodi che possono intrecciarsi, ripeto metodi non etichette. Siamo tutti d’accordo a sviluppare la vitalità del suolo e l’humus. Ci interessa la risposta della pianta, la vitalità della radice, praticare un’agricoltura che non è di rapina, l’agricoltura deve essere migliorativa, la vita è dinamica, fermi non si può stare. Ci siamo poi messi d’accordo su come continuare in cantina , su come seguire il processo di trasformazione del succo d’uva in vino. E poi è la verità del gusto a parlare, che è dalla nostra parte. Una vittoria lenta ma un seme che germoglia. Chi si avvicina per la prima volta ai vini naturali dice che puzzano, la seconda “ma forse”, la terza “però”, poi la quarta non bevono più vini industriali”. Chi arriva in questo mondo non torna più indietro”.
Giovanna Tiezzi Borsa (Azienda Agricola Pacina – Castelnuovo Berardenga, Si). “Mi piace utilizzare il termine terroir, alla francese. Per me è la categoria che racchiude tutto. Il vino deve raccontare il terreno da cui nasce, non credo poi che sia tanto io uomo viticoltore il protagonista. Alla fine bisogna solo sapere ascoltare quello che la vigna sta dicendo, rispettare i processi naturali. E’ importante il concetto di agricoltura sostenibile. Poi ciò che si fa in cantina è un passaggio alchemico importantissimo, ma il territorio racconta molto di più. Il messaggio che mi piace dare è quello del non intervento, certo bisogna avere il terreno giusto”.
Augusto Cappellano
Augusto Cappellano (produttore a Serralunga d’Alba, Cn): “Non bisogna per forza catalogare. Non sono d’accordo sull’utilizzo di schemi prefissati. E’ una abitudine di noi italiani il dover sempre fare paragoni, confronti. Qui non c’entra un discorso di “termine” ma di filosofia di vita personale. Alla fine il vino rispecchia il modo di vivere di chi lo fa. Alla fine c’è chi è più affine al mio modo di sentire e chi no. E’ il vino che parla, basta assaggiarlo, scoprire e conoscere la sua storia, quella del suo territorio, come è stato prodotto ”.
Walter De Batté (produttore a Riomaggiore, Sp): “La questione della categoria è solo un fenomeno da salotto, una disquisizione dogmatica. Il vino deve piacere a prescindere da ogni categoria. L’importante è che sia espressione di quel territorio. Bisogna solo tenere presente il vino come unione di tre elementi, triangolo virtuoso tra vitigno, territorio e uomo. E’ un errore poi demonizzare o schierarsi. Per esempio si può usare benissimo un lievito selezionato e fare un vino di territorio, è solo un modo per portare a secco l’ uva. Sicuramente è meglio il lievito autoctono. Tutt’altra storia è se il lievito selezionato viene utilizzato per avere note già prestabilite, per costruire quello che il mercato vuole. Personalmente mi diverto ad usare entrambi i lieviti. Quello che dobbiamo comunicare è che il vino è un piacere, che va oltre il piacere dell’assaggio, un viaggio che porta a scoprire il territorio. Che è il fine di tutto”.
Nicoletta Bocca (San Fereolo – Dogliani, Cn):“Sono d’accordo con quanto sostiene Elena Pantaleoni. Si tende a scambiare le pratiche agricole come fini, invece sono solo strumenti. Non fai biologico o biodinamica come se fosse un punto di arrivo. Il punto di arrivo è fare vini che rispecchiano in tutto e per tutto il territorio. Ognuno alla fine deve usare lo strumento più consono in quel momento e in linea con l’evoluzione personale. Si deve parlare solo di vino. La verità è questa. Può capitare poi che la verità del mio vino non piaccia per forza perché magari non si allinea al gusto del momento, non è uniforme a quello che si è sempre bevuto. Ma dipende dal gusto personale. Non credo sia determinate ragionare in termini di categoria”.
Luca Garberoglio
Luca Garberoglio (Carussin – San Marzano Oliveto, Asti): “Credo che alla fine è importante non la definizione, ma gli intenti. E’ questo che fa la differenza. Non è una questione di distinguere il vino naturale da quello convenzionale per protocollo di produzione. L’artigiano non mette solo tempo e lavoro ma qualcosa in più. Io cerco di comunicare e di pormi in modo inclusivo e non eslcusivo, nel vino non si può parlare di assoluti, dire qual è il vino e il modo migliore per farlo , non si può fermare tutto a quello che dichiara l’etichetta. A me piace definirmi vitocoltore a basso impatto antropico”.
Antonio di Gruttola (Cantina Giardino – Ariano Irpino, Av): “ Al di là delle etichette, sono la sensibilità, il rispetto della natura e del lavoro che contano. Sostengo un modo culturale di fare vino, che rispecchia pochi e sani principi e la tradizione che si rinnova, che si evolve. Il termine culturale contiene tutto. E questo è collegato ad un altro concetto. Oggi non c’è più senso etico, ed è questo quello che si deve invece tenere presente. Non è raro trovare produttori che nella vita fanno speculazione e poi firmano vini biologici o così detti naturali. Ecco che questa categoria non ha più valore”.
Francesco Guccione (produttore a Monreale, Pa): “E' importante l'attenzione profonda nei confronti dell'ambiente, il fatto di sentirsi custodi di esso. Conta la presa di coscenza e il rispetto del consumatore. E' importante la filosofia di chi fa quel vino, ma non intendo quella legata al singolo individuo, parlo di un sentire comune e che affonda le sue radici nel senso di responsabilità che chi fa questo lavoro ha”.
Dino Briglio (L' Acino, San Marco Argentano – Cs): “Penso che alla fine conti il lavoro onesto che sta dietro al vino. E non significa che se un produttore sceglie un protocollo non legato ai vini naturali allora non debba definirsi vignaiolo. Non si può nemmeno ridurre tutto a disciplinari di produzione o a quanta solforosa si utilizza. C’è chi lavora in modo onesto usando metodi diversi dai nostri e non per questo va considerato un avvelenatore. Oggi si parla appunto di solfiti come se si trattasse di metanolo, ma c’è di peggio, ci sono sostante molto più pericolose che non vengono nemmeno dichiarate in etichetta”.
Manuela Laiacona