«Potrebbe essere proprio questo il momento giusto per il Catarratto», afferma Cristina Mercuri, prestigiosa Wset educator, davanti a una platea di operatori e giornalisti nella giornata del B2B Day della decima edizione Camporeale Days. «La Sicilia oggi è al centro dell’attenzione internazionale grazie al fermento vitivinicolo degli ultimi anni, e questo vitigno – a lungo considerato marginale, quasi un gregario – può finalmente conquistare la scena».
La masterclass dal titolo eloquente “Catarratto: The Next Big Thing – da workhorse a hot grape dell’Ovest siciliano“ ha offerto un viaggio attraverso la storia, i biotipi e le vocazioni di quello che Mercuri definisce «un vitigno identitario», da troppo tempo confinato al ruolo di uva da quantità e oggi pronto a ridefinire il profilo enologico della Sicilia occidentale.
Mercuri parte dai dati: circa 30.000 ettari coltivati, che ne fanno il decimo vitigno più diffuso d’Italia. Un patrimonio che, gestito con cura, può sostenere un progetto regionale ampio. «Se la parte orientale dell’isola è ormai identificata con l’Etna e con il Carricante, la parte occidentale può trovare nel Catarratto il suo bianco di riferimento», spiega.
Dal punto di vista commerciale, il vitigno si colloca su due fasce: un “entry level” a 10-12 euro a scaffale e una più alta, fino a 15-20 euro. Nei mercati esteri, in particolare in Canada e Nord America, alcune etichette arrivano a toccare i 30-35 euro, e l’export cresce dell’8% annuo. Numeri che testimoniano il crescente riconoscimento internazionale.
Sul piano agronomico, i punti di forza non mancano: il Catarratto è produttivo, resistente alle malattie, affidabile anche in condizioni climatiche difficili. Una dote preziosa in tempi di cambiamento climatico. È però una qualità ambivalente: senza un’adeguata gestione della resa e della chioma, il rischio è quello di ottenere vini diluiti e privi di carattere.
La masterclass ha poi distinto i tre principali biotipi. Il Catarratto comune, produttivo e strutturato, ma meno personale. Il lucido, capace di esprimere maggiore aromaticità con note verdi e mediterranee – salvia, erbe, macchia – che lo rendono contemporaneo e riconoscibile. Infine, l’extra-lucido, raro ma in grado di dare vini di altissima qualità, con spiccata acidità e complessità.
«Questa capacità di adattarsi a interpretazioni diverse – osserva Mercuri – è la vera carta vincente del Catarratto: se ben gestito può unire affidabilità e territorialità, tradizione e modernità».
Non mancano tuttavia gli ostacoli. Prima di tutto la reputazione storica: per decenni il Catarratto è stato percepito come un vitigno “da lavoro”, utile solo a fare volume. «Questa immagine – sottolinea Mercuri – va ridisegnata. È necessario imparare a gestirlo in vigna e in cantina con attenzione per trasformare i vecchi limiti in nuove opportunità».
Il secondo rischio riguarda il confronto con il Carricante, oggi simbolo indiscusso della Sicilia orientale e protagonista del rilancio dell’isola negli ultimi vent’anni. «Il Catarratto potrebbe rischiare di restarne in ombra. Ma se la Sicilia saprà valorizzarne la specificità, potremo avere due grandi poli identitari complementari: l’Etna da una parte e il Catarratto dall’altra».
Il futuro del Catarratto, secondo Mercuri, si gioca proprio sulla capacità di comunicarne la dignità territoriale. Non più solo “gregario” o vitigno di supporto, ma bandiera dell’Occidente siciliano, in grado di esprimere uno stile mediterraneo autentico, con vini che coniugano freschezza, note erbacee e una personalità contemporanea.