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Scenari

Studio Fipe: nel 2024 i turisti hanno speso in Italia 23 miliardi nei ristoranti

08 Ottobre 2025
Lino Enrico Stoppani, Presidente della Fipe / un ristorante di una località turistica Lino Enrico Stoppani, Presidente della Fipe / un ristorante di una località turistica

Dalle città d’arte alle coste, la ristorazione è il vero motore dell’attrattività nazionale, ma attende ancora il pieno riconoscimento politico

Molto spesso, è noto, l’Italia si svela al viaggiatore non nelle piazze monumentali, non nei musei, ma negli aromi di un sugo, nei calici del vino del territorio, nella conversazione in un tavolo all’aperto. È l’Italia dei Ristoranti, quella che non solo sazia, ma che rappresenta e che dà forma alla più potente delle immagini di sé: la convivialità. Eppure, per paradosso, questo mondo fatto di centinaia di migliaia di imprese e oltre un milione di addetti, continua a non essere considerato, giuridicamente, un’impresa turistica.

Al Ttg Travel Experience di Rimini, Fipe – Confcommercio e Sociometrica hanno presentato il rapporto Il potere turistico della ristorazione, firmato da Antonio Preiti e introdotto dal presidente di Fipe Lino Enrico Stoppani, alla presenza del ministro del Turismo Daniela Santanchè. È un lavoro imponente, che non solo misura l’impatto economico del mangiare fuori casa, ma ne rivela la dimensione culturale e simbolica: la ristorazione come linguaggio universale dell’Italia, come forma di soft power.

Nel 2024 la spesa dei turisti, italiani e stranieri, in servizi di ristorazione ha superato i ventitré miliardi di euro, generando undici miliardi di valore aggiunto in oltre tremila comuni turistici italiani.

La ristorazione, da sola, rappresenta quasi il dieci per cento del valore aggiunto dell’intera economia turistica nazionale e copre più della metà del valore creato dal settore alberghiero. A cascata, ogni euro speso in un ristorante attiva almeno altri sessanta-ottanta centesimi nell’economia locale, tra fornitori, produttori, artigiani e impiegati. Non è dunque un servizio accessorio, ma un pilastro strutturale del turismo italiano. Eppure i pubblici esercizi non godono ancora del pieno riconoscimento di “imprese turistiche”, restando ai margini di molte politiche di sostegno al settore. Un ritardo culturale prima ancora che normativo, frutto di una visione che relega il cibo alla sfera del tempo libero e non a quella della produzione di valore.

La geografia della ristorazione turistica conferma la straordinaria articolazione del Paese. I 3.292 comuni turistici italiani generano complessivamente undici miliardi di valore aggiunto nella ristorazione, ma l’ottanta per cento si concentra nelle prime duecento destinazioni, e il settantacinque per cento nelle prime cinque: Roma, Milano, Venezia, Firenze e Rimini. La capitale domina con oltre un miliardo e centosessanta milioni di euro, seguita da Milano, Venezia e Firenze.

Dietro le cifre, emerge la mappa delle disuguaglianze territoriali: Nord e Centro assorbono la quota maggiore del valore, mentre il Sud – pur con eccellenze come Napoli, Palermo o le destinazioni costiere pugliesi e calabresi – resta indietro, penalizzato da infrastrutture carenti e da una stagionalità ancora marcata. Emblematiche le assenze di Basilicata e Molise, che non figurano tra le prime cinquanta destinazioni per valore aggiunto, nonostante casi come Matera, capitale europea della cultura nel 2019. Il turismo enogastronomico non cresce solo con la fama, ma con la permanenza e l’accessibilità.

L’Italia gastronomica, spiega il rapporto, si divide in tre modelli. Il Centro, trainato da Roma e Firenze, è la patria dell’alta densità di turismo internazionale, con oltre il settanta per cento del valore aggiunto generato da visitatori stranieri. Il Nord, con Milano, Venezia, Bologna, Torino e la Riviera, è un sistema misto dove business, cultura e vacanza si intrecciano. Il Sud, infine, resta a prevalenza domestica, con un turismo internazionale che raramente supera il quaranta per cento. Rimini rappresenta un’eccezione significativa: è una destinazione di successo costruita quasi interamente sul turismo italiano, un modello di resilienza e continuità.

Ma se la ristorazione è economia, è anche e soprattutto diplomazia culturale. Il rapporto dedica ampio spazio al “soft power” della cucina italiana, la capacità di un Paese di influenzare il mondo non con la forza, ma con la seduzione. Qui l’Italia primeggia. I novantamila ristoranti italiani nel mondo non sono solo ambasciate del gusto, ma antenne permanenti del nostro immaginario collettivo: la pasta, il vino, la pizza, ma anche un modo di vivere, il tempo condiviso, la lentezza, la qualità come valore civile. Ogni trattoria a New York o Parigi diventa un frammento di Italia diffusa, che non ha bisogno di proclami perché parla con la lingua universale del piacere.

Eppure questa forza porta con sé un rischio: quello dell’Italian sounding, l’abuso di nomi e simboli italiani per vendere prodotti che italiani non sono. Difendere l’autenticità del made in Italy gastronomico è oggi una questione di politica culturale, non solo commerciale.

C’è poi un passaggio, tra i più felici, dedicato al valore simbolico della cena. La cena, commenta Preiti, “è il momento cardine dell’esperienza turistica”. Non è solo nutrimento, ma rito di appartenenza, lente d’ingrandimento sulla cultura locale. È in quel momento che un visitatore diventa ospite, e l’ospitalità si trasforma in identità. Un ristorante non è solo un’impresa, ma un luogo trasformativo: il teatro dove si recita quotidianamente la commedia dell’italianità. La scelta di un vino locale, la lingua del cameriere, il gesto del cuoco, tutto concorre a costruire l’immagine del Paese. Senza la tavola, non esiste esperienza turistica italiana che regga, perché il gusto è la prima e l’ultima impressione che un viaggiatore porta con sé.

Accanto ai ristoranti, il rapporto dedica attenzione anche ai bar, un’istituzione unica al mondo. Nessun altro Paese possiede un equivalente della nostra ritualità del caffè, della colazione al banco, dell’aperitivo come rito di socialità. Il bar, insieme alla piazza e alla storia, forma quella “triade favolosa” che definisce lo stile di vita italiano, e nel turismo questa triade diventa esperienza immediata: il turista non entra in un bar italiano, ci si riconosce dentro.

Nel suo intervento a Rimini, Lino Enrico Stoppani ha sintetizzato il senso politico del rapporto: “La ristorazione valorizza le economie locali ed è un patrimonio immateriale che accompagna ogni esperienza turistica. È cultura e identità, non solo valore economico”. Dietro la retorica del “mangiar bene” c’è dunque una rivendicazione precisa: riconoscere alla ristorazione il ruolo di asset strategico per la competitività del turismo italiano, integrandola nelle politiche pubbliche, nella pianificazione territoriale, nella promozione internazionale. È un passaggio necessario anche per correggere le distorsioni strutturali: la stagionalità, la frammentazione aziendale, la carenza di competenze e innovazione, la difficoltà di accesso al credito e la mancanza di strategie di sostenibilità. L’Italia, pur restando amata, rischia di non saper più gestire il proprio successo.

Il rapporto si apre con una citazione di Russell Crowe: “L’Italia è un dono degli Dei, da amare, rispettare e onorare”. Parole che, nella retorica di un attore hollywoodiano, assumono un valore simbolico: la bellezza italiana non si difende da sola. Come ogni dono, ha bisogno di manutenzione, di investimenti, di intelligenza. E la ristorazione – con la sua miscela di economia e cultura, impresa e accoglienza, materia e immaginario – è forse la più umana delle industrie italiane, quella che tiene insieme memoria e futuro. Perché, come ricorda Preiti nelle conclusioni, “ogni piatto è una narrazione, e ogni narrazione, se condivisa, diventa identità collettiva”. L’Italia del turismo gastronomico non è solo un insieme di numeri, ma una storia da continuare a raccontare. Ovviamente a tavola.