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Birra della settimana

Schigibier: il ritorno di Schigi con un suo progetto birrario

19 Ottobre 2025
Le birre Schigibier di Luigi D'Amelio Le birre Schigibier di Luigi D'Amelio

Dopo la stagione Extraomnes, Luigi D’Amelio riparte da Burago di Molgora con sei birre nate nel segno della classicità fiamminga

Sostiene D’Amelio. Sostiene D’Amelio che, nel panorama della birra e delle sue mode, il Grande Belgio può anche essere meno in auge (e oggettivamente lo è, ormai da qualche anno); ma la sua stella mai tramonterà del tutto. Sostiene D’Amelio che difendere in prima persona questa convinzione – e lui, oggettivamente, la difende a spada tratta – significa navigare in direzione ostinata e contraria: ma che così c’è ancora più gusto. Sostiene D’Amelio che il Grande Belgio di cui si parla è, tra l’altro, un modo di bere e di dare da bere in cui il crisma dei tanti gradi alcolici e non sentirli rappresenta una virtù diabolica (e l’ossimoro è voluto): ma che proprio quello è il suo bello. Sostiene D’Amelio molto altro ancora; ma vale la pena essere più precisi sul suo conto, riportandone – oltre al cognome – anche il nome e soprattutto il soprannome.

Shigi, anzi, ˈskiːdʒi

Il D’Amelio in questione è ovviamente Luigi: meglio conosciuto, al pubblico della pinta, con il nickname di Schigi. Dopo aver dato vita nel 2010, a Marnate (Varese), e quindi portato ai vertici – nella stima del pubblico come della critica – il marchio Extraomnes (con cui nel 2013 si è aggiudicato il titolo di Birraio dell’anno), ha chiuso nel 2025 quel capitolo, epico sotto diversi aspetti, per aprirne uno nuovo.
Giusto un breve riepilogo dei fatti: l’anno prima, l’azienda proprietaria del sito lombardo (la Cafè El Mundo) aveva scelto di passare dalla produzione in loco all’attività in conto terzi. Dopo qualche mese, Schigi prende atto di come lontano da una sala cotte non riesca a stare e decide a sua volta di migrare. Trova così l’intesa con un’altra realtà lombarda, il birrificio Hibu, a Burago di Molgora (provincia di Monza e Brianza); e, avuta la garanzia di poter manovrare personalmente fra i tini, si rimette in gioco. Inizia a lavorare per sé in quello stabilimento: non come semplice beer-firmer, ma come titolare di una gamma propria. Il nome? Inequivocabile: Schigibier. Il logo? Lo stesso suo cognome, ma scritto coi caratteri dell’alfabeto fonetico internazionale: ˈskiːdʒi – bizzarro, geniale.

“Belgio nunci et semper”

Sotto le nuove insegne, issate in aprile, Schigi si dedica ovviamente alla sua passione: il Belgio. Con un campionario iniziale di sei referenze, tutte ispirate a tipologie fiorite storicamente tra Fiandra e Vallonia. Abbiamo avuto modo – dopo alcuni assaggi scompagnati – di conoscerle organicamente durante un incontro ravvicinato, condito da un bel po’ di chiacchiere a ruota libera, all’edizione 2025 del Villaggio della Birra: storico festival di settore, il più longevo in Italia, che dal 2006 rappresenta a fine estate un appuntamento fisso per centinaia di appassionati. Di quella nostra sessione di bevute incentrata sul catalogo Schigibier, eccovi una cronaca sintetica, scandita etichetta per etichetta:

I’m a Peach

Bière blanche non convenzionale o Fruit Ale su base Witbier? “Le etichette stilistiche mi hanno sempre interessato fino a un certo punto”, risponde l’imputato. E tanto ci basta. Gradi alcolici 5; in miscela secca malto Pils e frumento crudo; in speziatura buccia d’arancia amara, coriandolo e Grani del Paradiso; in fermentazione, alla fine della fase tumultuosa, un 20% di pesche (tra cui Saturnine) in purea pastorizzata. Quanto all’identikit organolettico: colore paglierino, aspetto velato, bella torretta di schiuma bianca. Aromi variegati, con sensazioni che – accanto agli apporti degli ingredienti – offrono spunti da panificato chiaro, frutta (banana, pera), fiori (cotone), spezie (chiodo di garofano, cardamomo). Sorsata leggera nella corporatura e ben carbonata, chiusa da un finale secco e di lieve amaricatura tannica.

Karasciò

Belgian Blond modernista o Hoppy Belgian? Vale la considerazione annotata a proposito della Peach. Dunque, andiamo al sodo. Taglia alcolica 4,9%; in impasto malto Pils; in luppolatura il flemmatico East Kent Golding e lo yankee Centennial, anche in dry hopping; in tino, la voracità fermentativa di un lievito Trappist. Al bancone il colore è un dorato pieno, la velatura diffusa, la schiuma bianca e copiosa. Il naso riceve il massaggio che si aspetta: pasta frolla, frutta (banana e pera), spezie (pepe, chiodo), fiori (malva, sambuco), agrumi (arancia). Il palato, poi, non resta deluso: sorso spedito – grazie alla bolla guizzante e alla corporatura atletica – finale secco, persistenza amaricante estesa ma non insistente, così che l’ugola chieda subito un altro bicchiere.

Anatema

La preferita di chi scrive, passionista dei piaceri mentali suscitati dalle cose dotate di una natura curiosa. L’originalità sta nel cimentarsi, da parte del birraio, con una Saison su base ambrata: fattispecie attestata dalla letteratura di genere, ma oggi non così frequente; semmai filologica, richiamandosi agli albori della tipologia. Vabbè, fin troppe ciance preliminari: ecco la birra e il suo progetto. Gradi alcolici 6,2; in ammostamento malti Pils, Aromatic e Special B; in luppolatura gettate di East Kent Golding e Cascade; in fermentazione – superfluo dirlo – un lievito selezionato per lo stile. La mescita consegna un colore ramato, aspetto dosatamente velato, corona di schiuma avorio. L’olfatto è caldo: biscotto, banana matura e fico disidratato, liquirizia e noce moscata, un filo di arancia candita. La bocca è appagante senza eccedere: corporatura media, bollicina viva, condotta gustativa dolceamara, finale secco, persistenza significativa quanto basta.

Imprimatur

Bum: la bordata della birra ammiraglia. La chiamiamo così non tanto per la gittata etilica (specialità in cui, tra le etichette di Schigi, il primato spetta ora alla Belfagor, col suo 9,5%), ma per la riuscita complessiva della ricetta da cui prende forma questa Belgian Golden Strong Ale, con la quadratura tra progetto e risultato trovata praticamente al primo tentativo. Mosto monocolore da malto Pils; in luppolatura un tandem europeo di East Kent Golding e Styrian Golding; in speziatura pepe di Kampot; in tino, nell’inoculo dei lieviti, altro tandem: un Saison e un Trappist. Al tavolo il colore è dorato carico, l’aspetto omogeneamente velato, la schiuma bianca e troneggiante. Il profilo olfattivo sfodera note da frolla, frutta (banana e pera), fiori (sambuco e malva), essenze balsamiche (eucalipto), dissimulando dolosamente la sua spinta etilica. Lo stesso crimine si ripete al sorso, il cui calore in chiusura – al termine di una corsa compiuta lungo un bilanciato binario dolceamaro, sotto la spinta di una carbonazione vivace – induce a sottovalutare la pericolosità di questo cingolato in abiti da bionda.

Belfagor

“Belfagor è il diavolo legato al peccato capitale dell’accidia. Che a me piace molto: il non far niente per il gusto stesso di non farlo.” C’è tanto di Schigi, insomma, nel concepimento della sua Belgian Tripel. A monte, un impasto secco di malto Pils; una luppolatura da East Kent Golding e Styrian Golding; l’aggiunta, a fine bollitura, di zucchero candito chiaro; una fermentazione affidata alla solerzia di un lievito Trappist. Risultato? Colore dorato carico, sospensioni uniformi, schiuma bianca e fitta; tavolozza odorosa ricca: frolla e miele, albicocca e pesca (attorno a una dorsale di pera), tabacco, pepe, chiodo di garofano. Infine il sorseggio: coeso e disinvolto (in barba ai 9,5 gradi, di cui pure si avverte il calore), dotato di pimpante carbonazione e di un pulito finale secco.