Non che il ristorante Ratanà fosse un best kept secret meneghino: il suo nome circola da decenni fra gli addetti ai lavori e non sono mancate le occasioni per parlarne dal 2009, quando lo chef Cesare Battisti ha aperto la strada a un nuovo format di “osteria contemporanea”. Esiste un prima e un dopo, tuttavia, dallo scorso settembre, quando il celebre attore Stanley Tucci ha pubblicato sui social un breve video, definendolo “uno dei miei ristoranti preferiti al mondo”. Non deve essere sfuggito al critico gastronomico del Financial Times Jay Rayner, che il 22 novembre ha pubblicato una recensione entusiastica dell’insegna di via de Castillia. “Durante le mie ricerche in previsione di un breve viaggio, era questo il ristorante milanese che tutti sembravano raccomandare, e con tutti, ovviamente, intendo Stanley Tucci e Nigella Lawson”. È stato un fuoco d’artificio di mondeghili e trippa alla milanese, trota affumicata e risotto giallo “superbo”.
Cesare, raccontaci queste visite eccellenti.
“Quando è a Milano, Stanley ci frequenta abbastanza. Non è venuto solo una volta, anni fa ci aveva messo anche in una puntata di Searching for Italy. Probabilmente apprezza l’atmosfera del Ratanà, che è familiare e conviviale, senza le barriere del fine dining. Un paio di volte è venuta anche Nigella Lawson, io non sapevo neppure chi fosse, ma mi è stato fatto notare che era la dama bianca della cucina in Inghilterra. Per quanto riguarda Rayner, purtroppo o per fortuna questi giornalisti non si presentano, quindi non so neppure come sia fatto. Era successa la stessa cosa due anni fa con il critico del New York Times: vengono e riportano ai lettori del loro paese l’esperienza, senza le sovrastrutture dei giornalisti e degli ispettori italiani. Sono resoconti giusti, puntuali, che risulterebbero fedeli anche se si fossero trovati male”.
Cosa hai provato leggendo l’articolo del Financial Times?
“Sicuramente non me l’aspettavo, ma quale ristoratore non vorrebbe avere questo genere di sorprese? Per me è stata la conferma del clima che si respira al Ratanà. È stato faticoso creare questo ambiente, ci abbiamo messo tanti anni, ma volevamo fosse esattamente così. Quando vieni a mangiare, vivi un’esperienza inclusiva e questa cosa si è riflessa nell’articolo: per me il complimento più grande. Poi siamo stati molto fortunati: abbiamo un palcoscenico un po’ diverso dagli altri, a Porta Nuova. Abbiamo preso il ristorante quasi vent’anni fa, in una zona degradata, che si è riqualificata, e abbiamo lavorato ogni anno per rendere più contemporanea la proposta, con quel tocco particolare di inclusivit”.
La recensione infatti parla dei piatti, ma si sofferma anche sull’atmosfera, la location, il servizio da parte di affabili camerieri brizzolati.
“I nostri piatti sono la versione 2.0 dell’anno precedente, sempre con una radice fortemente tradizionale. Ma l’inclusività è quella di un’osteria familiare”.
Hai già misurato effetti sulle prenotazioni dall’estero?
“Siamo sempre al completo perché abbiamo un posto piccolino, da 56 coperti più il dehors in estate. Forse registriamo un po’ più di pressione nelle prenotazioni. Ma fin da Expo abbiamo sempre avuto una lista d’attesa di una decina di giorni. Poi ci sono clienti che non hanno mai prenotato al telefono, magari mi chiedono uno spumantino da bere sulla panchina mentre aspettano che si liberi un tavolo. Il Ratanà è anche questo”.
La tua è una cucina apparentemente semplice, che però si basa sul rigore delle tecniche e sull’eccellenza delle materie prime: è questa la chiave del successo?
“Il successo non dipende mai da un unico elemento, ma da una serie di fattori che si incastrano nel modo giusto. Siamo quattordici in cucina, solo per fare risotti alla milanese e piatti tradizionali, tanto li prendiamo sul serio, e pratichiamo una ricerca accanita sui fornitori. Poi un ristorante deve ristorare ed essere inclusivo. Noi non siamo un posto esclusivo, dove fare esperienze di lusso: qui il cliente fa parte dello spettacolo. Attenzione però, tutta la cucina e la maggior parte della sala arrivano dal fine dining, che è un’espressione della cucina italiana assolutamente necessaria, per quanto minoritaria. Condividiamo perfino i clienti, ma noi siamo una cosa diversa. Ultimamente è meno popolare del passato, forse sono cambiati i bisogni della società e cambierà anche il modo di praticarlo. In generale non amo troppo incasellare, ma bisogna saper leggere il momento e il luogo, ridimensionando l’ego”.
Il pubblico oggi chiede più tradizione?
“No, chiede più inclusività, perché la nostra società è diventata superficiale e le persone vogliono riconoscersi in quello che fanno. Al ristorante cercano qualcosa di più semplice, vogliono capire ciò che mangiano e ritrovare la qualità del prodotto senza troppe sovrastrutture”.