Chi ha lavorato nei ristoranti lo sa, c’è sempre qualcosa che si rompe e c’è sempre qualcuno che s’innamora. Ci sono queste cose, e molto altro in questo Aragoste a Manhattan (“La Cocina” il titolo originale) curiosa pellicola in bianco e nero, del regista messicano Alonso Ruizpalacios.
Liberamente adattata da una piéce teatrale, la pellicola, racconta una giornata dentro la cucina di un grande ristorante newyorkese, le storie, le passioni e i drammi degli umani che ci lavorano dentro. Odio, amore, invidia, speranze, sogni anche, sì anche gli umani delle cucine ne hanno, vi assicuro, la vita(?) di quell’umanità spesso senza documenti, che cucina per gli altri, la sera.
Non ci sono impiattamenti fashion a favore di telecamera, l’enfasi e gli accenti sono tutti sui personaggi, la giovane Estrella che inizia quel giorno, appena arrivata dal Messico, Pedro e Julia nella loro tormentata storia d’amore, e molti altri, meravigliosi volti di quel (micro) cosmo che sono tutte le cucine, di tutto il mondo, in tutte le epoche storiche dai tempi di Carême.
Fa bene il bianco nero al film come lo farebbe in molti racconti del cibo, lo riporta in una dimensione più umana, meno estetizzante, più materica, adatta a coglierne la sfiancante fisicità, l’amara fatica di preparare qualcosa in cucina, ogni giorno, per gli altri. Teatrale, forse un po’ lungo, come del resto lo sono sempre i turni di cucina, questo film ci porta nel backstage che viene ancora troppo spesso raccontato poco e male, delle cucine professionali.
Un dietro le quinte fatto di vite pesanti, di stanchezze sovrumane, di piccoli sogni (ma i sogni lo sono mai?) che a volte sono solo cose come avere i documenti in regola, potere pensare a una vita, un futuro, un qualcosa che non siano le luci al neon, il calore e le urla del servizio che inizia, inesorabile, ogni sera.
Un backstage fatto di umanità sincera, mortificata, di innocenti evasioni oniriche nella pausa sigaretta, nel classico vicolo sul retro, perché ogni ristorante ha sempre un vicolo sul retro. Un backstage sudato e nevrotico, quello delle cucine da cui escono i piatti che mangiamo dove tutto, sempre, sembra di essere sull’urlo del collasso, del caos, dell’ebollizione, dove qualunque cosa succeda, la stampante, incurante di ogni sentimento, debolezza, e slancio, continua a sputare ordinazioni, insensibile, asettica, divina.
Vedete questo film, spegnete i telefoni, due ore abbondanti, dentro la vita di gente che quella vita la fa tutte le sere, per molto più tempo, anche se spesso sui contratti che firma, se li firma, di ore ce ne sono scritte molte meno.