La nostalgia è, sempre, un sentimento reazionario. Sembra quindi molto in linea con i tempi, con lo zeitgeist che questa nuova stagione dello show Netflix Chef’s Table: Legends scelga di raccontare il passato e non il presente.
Il viaggio in quattro episodi è ancora molto bello e ci si emoziona ancora. Ma forse lo show e le sue modalità di narrazione cominciano a tirare un po’ la corda.
Si inizia con Jamie Oliver che ci parla di un’ Inghilterra che non c’è più, ottimista, pre-Brexit. Ampio spazio a un arzillo Tony Blair, il new labour dell’indie rock e dei roaring 90’s. Dalla volontà di aprire un ristorante con 15 studenti in cucina con problemi di apprendimento scolastico simili ai suoi, alla lotta per rendere più sani e colorati i menu delle mense scolastiche, passando per l’amore per le culture diverse, sentiamo nell’ormai attempato gentiluomo di campagna Jamie Oliver, echeggiare un’eco bourdaniana che ci piace molto, un afflato sociale, che ormai si è perso una voglia usare il cibo come veicolo di cambiamento, della vita della gente se non del mondo tout court.
Lo chef spagnolo José Andrés nel secondo episodio, forse il più riuscito, tra progetti umanitari e ristoranti di fine dining, ci mostra come il cibo potrebbe, ancora, cambiare tante cose del mondo e se non altro gli chef potrebbero ancora nutrire chi ne ha davvero bisogno: ovvero gli affamati, e non solo e sempre i sazi.
Non è un caso che questa idea di cucinare per i poveri, per i bambini, per gli oppressi, venga dai due episodi “europei” dove (e questo è un grandissimo merito dello show), la guida Michelin non viene mai nominata. Sì, cari amici, si può essere grandi chef e stelle della cucina senza averne di stelle, quelle Michelin. Si può e credo si debba.
Al contrario, di Michelin si parla eccome nel terzo episodio forse quello più anacronistico e meno riuscito dei quattro, quello su Thomas Keller, pioniere del fine dining made in Usa. Vedere ancora nel 2025 piatti dorati e brigate militarizzate fa un certo effetto almeno su chi scrive, e la classica storia americana del rags to riches, dell’uomo che affronta le avversità e le supera ottenendo successo e fama, risulta come spesso accade, un po’ soporifera.
Mantenere tre stelle Michelin per molti anni potrà sembrare un traguardo enorme per una ristretta cerchia di persone (bianche) privilegiate di mezza età, ma non sono certo queste le battaglie che nel 2025 tra guerre, carestie e tremende ingiustizie sociali scaldano il cuore, almeno non il mio.
Alice Waters, la madrina del movimento farm to table, è più di impatto ma la sua California fatta di filiere corte e di ortaggi bio, sembra avere una narrazione un po’ usurata, in una terra in cui incendi, crisi abitative e disuguaglianze sociali crescenti, è spesso additata come esempio concreto di cosa non funziona nell’ideologia liberal.
In ogni caso lo slancio hippie-utopista nato nei sit in di Berkeley negli anni ‘60 sembra essere ancora vivo anche se non troppo in salute, e forse che il finale sia, in continuità ideale con l’episodio di Jamie Oliver, una riflessione sull’importanza del cibo nelle scuole, di una cultura del cibo per i più piccoli per arginare lo stra-potere delle multinazionali del cibo processato, è un bel segnale.
In Italia nessuno dei nostri chef di grido si è mai sporcato le mani con le mense scolastiche, il vero elefante nella stanza del food italiano, dove quello slow è sempre più sinonimo di elitario, e l’altro, quello che nutre le masse è sempre più americano, processato e insapore.
Vale ancora la pena vedere uno show come Chef’s Table, con le sue luci perfette con i suoi sfondi immacolati, in un mondo che brucia, soffre, e ha fame?
Forse sì, ma forse è sempre meno interessante, forse sarebbe meglio tornare a narrazioni meno pure, meno perfette, meno ageografiche, c’è sempre più gente che ha fame, c’è sempre più gente in sempre più ampie parti del mondo che ha bisogno di essere nutrita, e forse si accontenterebbe di impiattamenti meno fotogenici, e un po’ più nutrienti e soprattutto salutari.