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Il caso

Torino, chiude i battenti la macelleria Curletti. Era un simbolo, ed è la fine di un’epoca

03 Luglio 2015
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Riccardo Ruggeri, ex manager Fiat e notista di Italia Oggi ha pubblicato un articolo sulla chiusura di una macelleria storica di Torino, uno dei simboli gastronomici della capitale sabauda. Ve lo riproponiamo per gentile concessione dell'autore e del quotidiano economico.

Può apparire curioso, ma per me il “segnale debole” del giorno non viene dalla Grecia, è la chiusura, ahimè definitiva, della Macelleria Curletti di Torino, condotta dall’amico Sergio. Lui non l’ammetterebbe neppure sotto tortura, ma i motivi non sono certo quelli che ha addotto a noi clienti-amici (stare più in famiglia). Sergio ha troppo orgoglio e onestà intellettuale per non riconoscere la fine di un’epoca. Lo dimostra il fatto che non ha ceduto la licenza, non il prestigioso marchio, ma ha proprio chiuso, come deve fare il portatore del sogno di una vita. Ieri sera ha preso i quadri (di pittori importanti) appesi alle pareti, tutti dominati dal “bue”, ha tirato giù la saracinesca, ha attraversato il ponte Isabella (lo stesso che percorreva ogni giorno per tornare in villa il suo cliente più prestigioso e fedele, Gianni Agnelli), e si è avviato verso casa. E non poteva essere diversamente. 

Le multinazionali del cibo, hanno deciso che, in prospettiva, la carne bovina debba essere sostituita dal seitan, un intruglio industriale di glutine di grano, farro, kamut, rendendo reperto storico la celebre frase di Pino Curletti “questa costata di bue piemontese la si trova qui e da Tiffany” . Chissà se Sergio ha letto René Redzepi (del Noma di Copenaghen) “non mangeremo più carne, ma verdura e insetti”, ne ha preso atto, e in silenzio se ne è andato. Ha chiuso il 30 giugno, quando i lavoratori autonomi hanno cessato di produrre a totale beneficio del fisco, e comincerebbero a lavorare per se stessi.

La macelleria nacque all’inizio del ‘900 grazie a Oreste Curletti, al civico 47 di corso Moncalieri, nel cortile interno dove macellava c’era una fabbrichetta che produceva pani di ghiaccio, garantendo così una catena del freddo ante litteram. Si posizionò subito al vertice cittadino, l’ingresso in macelleria del figlio Pino la fece diventare uno dei luoghi torinesi a più alta concentrazione di charmeur. Lì trovavi i migliori “tagli” di carne, sapevi che se chiedevi carne cruda di fassona “battuta al coltello” lui, ogni decina di colpi interrompeva, umettava la punta del coltello in una ciotola di armagnac, e riprendeva.

Pino era uomo di gran classe: prediligeva la grazia femminile, gli abiti di alta sartoria, la piazzetta di Portofino, il tabarin, le gauloises, i magnum di Barbaresco al profumo di viola. Un tale stile lo portò ad aprire, in un locale adiacente la macelleria, una galleria d’arte che, sentito l’amico fraterno Giovanni Arpino, chiamò la Parisina”. La inaugurò Guttuso, ospitò Klimt, Sutherland, Knoff, Casorati, Paolucci, ai visitatori offriva un goccio di elisir, un bon mot, un aneddoto.

Pino ci lasciò nel ’96, continuando a fare splendide battute fino alla fine, ne ricordo una, al termine di una cura ospedaliera particolarmente dura: “Sono un dipinto di Courbet, l’uomo con la faccia verde”. Lasciò la macelleria a Sergio, che per tutta la vita gli aveva fatto prima da assistente, poi da vice, quindi sostituendolo su quel bancone alto, in un tripudio di marmi. Fui sempre grato a Sergio per essere stata, la sua, l’unica macelleria a non avere il banco-frigo, quello con le orrendi luci al led che fanno da make-up a bovini che hanno attraversato l’oceano e sanno di freezer. La sua carne arrivava dalla provincia di Cuneo, veniva frollata come Dio comanda, noi clienti chiedevano cosa volevamo, lui si ritirava nel gigantesco frigo (mai nessuno di noi osò chiedere di visitarlo) e ne usciva con il pezzo giusto, lo massaggiava con mani sapienti e procedeva al taglio, con il rigore di un laser, seguendo venature invisibili a noi umani.

Comunque, piuttosto del seitan o del tofu, piuttosto della carne grondante ormoni e antibiotici, dei formaggi senza latte, del vino senza uva, imposti dai loschi eunuchi euro-americani in nome del ceo-capitalism e del Ttip, meglio gli insetti. Almeno, un giorno furono vivi, avevano ruzzato, amato, vissuto.