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Il caso

Vizi e virtù (ignorate) del Marsala. Farinetti e De Bartoli tra ottimismo e ragione

24 Maggio 2020
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Scrive Oscar Farinetti nel suo libro Serendipity: “Parlare del Marsala significa occuparsi di un vino straordinario che ha ricevuto un decimo dei riconoscimenti e del successo che merita…

Gli stessi produttori, ma certamente non tutti, lo hanno maltrattato con diverse varianti e aromatizzazioni, e lo hanno snaturato concentrandosi spesso su una politica di marketing rivolta al primo prezzo”. Racconta nello stesso capitolo Renato De Bartoli commentando i 70 mila ettolitri oggi prodotti: “A mio avviso la cosa più tragica è che circa il 90 per cento di questo Marsala è un surrogato per aromatizzare il pollo e la carne rossa o utile all’industria alimentare conserviera…Oltretutto il “surrogato” genera un indotto economico davvero di scarsa entità, incapace di alimentare un ricambio generazionale e investimenti sull’invecchiamento, che sono la vera ricchezza qualitativa del Marsala”.

Come è facile intuire il lungo scambio di battute fa parte del capitolo dell’ultimo libro uscito pochi giorni fa del patron di Eataly e già ai primi posti tra i volumi più venduti in Italia. “Una vittima…meravigliosa”, è il titolo del capitolo e già nell’ossimoro c’è la sintesi della riflessione. È un caso di Serendipity il Marsala. Forse sì, ma in senso negativo se si pensa al fatto che se ne voleva fare un grande vino ed invece le cose sono andate, come è evidente, in modo diverso. Renato De Bartoli conosce come pochi il Marsala e le sue potenzialità e forse Farinetti nello scegliere l’interlocutore per farsi raccontare questo vino, non poteva fare di meglio. Ma la lettura del capitolo fa emergere altri spunti di riflessione importanti. Poche pagine, ma dense di informazioni e suggestioni. Come non cogliere ad esempio l’interessante differenza tra Woodhouse e Ingham: il primo bravo ad intuire la possibilità che il Marsala potesse soddisfare la domanda di mercato per i vini fortificati che arrivava dall’Inghilterra; l’altro invece con la testa rivolta alla qualità creò una sorta di protocollo di produzione, una forte spinta innovativa ed anche la prima rete commerciale nella storia del vino, spingendo il Marsala oltreoceano con successo.

Da notare quindi due aspetti. Che in quel momento il Marsala era il primo vino italiano globalizzato, come diremmo oggi, e tutto questo era merito degli inglesi. I siciliani non c’entravano nulla. Sono stati anche gli inglesi a fare la fortuna di Bordeaux. E lì, come è noto, è andata diversamente. E il secondo aspetto riguarda l’arrivo dei Florio. Vincenzo, racconta De Bartoli, forse fu il primo a chiamarlo Marsala. E gli piaceva così tanto che in vent’anni diventò un produttore importante. Probabilmente il Marsala in quel momento era così importante da diventare un asset che potesse consolidare il potere di una famiglia, i Florio, all’apice della loro fama. Anche loro, per esempio, non siciliani perché le loro origini erano calabresi. I marsalesi spuntano dopo. A successo consolidato. Ma quando gli altri escono di scena comincia il declino. Inarrestabile. Servono più di cinquant’anni per demolire l’immagine di un vino straordinario. Ma a leggere il libro sembra che ci siano riusciti bene. I settantamila ettolitri di oggi sono un decimo della quantità del periodo d’oro. Ma basterebbero a risalire la china. Perché la natura identitaria del Marsala è tale che potrebbe riscattare sé stesso e tutta una storia e un territorio. Ripartendo magari da quel Marsala pre-british che oggi è il Vecchio Samperi, il vino icona dell’azienda della famiglia De Bartoli, Marco soprattutto, il papà di Renato e di Sebastiano e Giuseppina che ne stanno portando avanti con bravura il testimone. Farinetti è un inguaribile ottimista. Ed è convinto che il Marsala avrà un futuro migliore. In Renato De Bartoli ci sembra che emerga una sorta di pessimismo della ragione. Ma lui sa perfettamente che il Marsala e il modo di fare i vini in quel territorio hanno qualcosa di speciale e di magico. Quello che manca, purtroppo, aggiungo io è una certa consapevolezza. Che non è una parola a caso. Consapevolezza, leggo da una dizionario, è quella parola che “denota un fenomeno estremamente intimo, e di importanza cardinale. Non è un superficiale essere informati, né un semplice sapere – e si diparte anche dalla conoscenza, più intellettuale. La consapevolezza è una condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona. È quel tipo di sapere che dà forma all’etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole autentiche”. Ne sanno qualcosa a Marsala?

Fabrizio Carrera