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Il personaggio

Blangé, fenomenologia di un successo. Bruno Ceretto: perché è il nostro volano

05 Giugno 2014
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Tutto su uno dei bianchi più famosi. “Obiettivo un milione di bottiglie”. E in futuro due nuove trattorie. E quella volta con Farinetti…

di Francesca Ciancio

“Il Blangé è come la Protezione civile, Aiuta tutti!”. 

Bruno Ceretto pensa al vino più noto della sua azienda come se fosse acqua santa. L'anno prossimo saranno trent'anni dall'uscita della prima bottiglia di uno dei vini bianchi più famosi d'Italia. Cento per cento Arneis, 600 mila bottiglie che cresceranno ancora, grazie alla messa in produzione di altri vigneti. L'obiettivo è un milione di bottiglie.

Vado all'appuntamento con il signor Bruno con l'idea di farmi spiegare “la fenomenologia del Blangé”. Per capire come si fa a creare un vino che sia al contempo best seller e long seller. Mi aspetta puntualissimo alla Piola, la versione pret-à-porter del ristorante tristellato Piazza Duomo, entrambi ad Alba. La bottiglia di bianco è già nel ghiaccio. E lui ha le spalle larghe dei “grandi vecchi di Langa”. Se vuoi capirci qualcosa di questo pezzo di Piemonte tutto vitato, devi passare attraverso personaggi così. Gli faccio i complimenti per il panorama mozzafiato che si gode dalla tenuta Monsordo Bernardina e mi parte con il primo aneddoto: “anni fa venne a trovarci Michail Gorbaciov in occasione di una premio. L'ex presidente sovietico mi disse che lo stato italiano avrebbe dovuto pretendere da me un supplemento di tasse per la vista di cui godevo ogni giorno”

Alla salute signor Ceretto..e a quella del Blangé. Me lo racconta un po'? 
“Agli inizi degli anni '80 io e mio fratello Marcello volevamo fare un bianco. Giravo già tanto all'estero e mi colpì il successo dei bianchi friulani. Perché il Piemonte non poteva fare altrettanto? Escludemmo da subito il Gavi, un vino da noi considerato più ligure. Cominciammo a pensare all'Arneis del Roero, un'uva che fino al Dopoguerra veniva vinificata come il Moscato per le feste natalizie. Partimmo con i primi sette ettari a Vezza d'Alba. Più che un acquisizione, è stata un'impresa. Il vigneto era frazionato tra sessanta proprietari. Affidai gli atti di acquisto alle tre P: il parroco, il postino e il professore, le persone di cui ci si fidava di più in paese. Oggi possediamo 80 ettari di Arneis, in tutto il Roero ce ne sono 600”. 

E del nome che mi dice?
“E' un francesismo. A fine '700 queste terre conobbero l'occupazione delle truppe francesi con l'armistizio di Cherasco. C'erano tanti panettieri transalpini e blangé non è altro che la pronuncia dialettale di “boulanger”, la vigna del panettiere. Mi piacque subito. A chi mi chiede se è un vino francese dico che il Piemonte è più in sintonia con Parigi che con Roma”.

E' corretto dire che questo è un vino studiato a tavolino?
“Lo è se non si ha paura di seguire le logiche del mercato. Volevamo un vino che piacesse ai giovani e alle donne, fresco e profumato, ma che venisse da un posto di eccellenza viticola. Se ne occupò l'enologo Donato Lanati che per l'occasione inventò la criomacerazione. Questo ci permise di usare per la prima volta una bottiglia trasparente e di lasciare un leggero “mosso” nel vino, non solo per renderlo più piacevole, ma anche perché l'anidride carbonica consentiva una migliore conservazione. Per l'etichetta pensammo a Silvio Coppola, presidente mondiale dei designer e in forza all'Olivetti: sua, l'idea del lettering dorato che dialogava con il colore del vino. Mi creda, aprire oggi bottiglie dell'85 è davvero divertente”.

Sull'etichetta la dicitura è Langhe Arneis e non Roero Arneis, eppure da un anno esiste un consorzio dedicato al quel territorio…
“Ma le pare che dopo cinquanta anni di viaggi e di confronto con il mercato penalizzo la parola “Langhe” per dare risalto a quella “Roero”? Abbiamo un nome che parla da solo. Non ha senso sempre ricominciare di nuovo. Io vado dietro al mercato e il mercato conosce il nome Langhe. Se avessero voluto, i roerini produttori di Arneis avrebbero potuto sfruttare meglio la popolarità del Blangé, ma non l'hanno fatto. Fosse per me esisterebbe un solo grande consorzio che includa anche Asti e Moscato”.

Ma una creazione del genere sarebbe possibile oggi?
“La vedo difficile. Il successo è dovuto al buon equilibrio tra qualità e prezzo. Giochiamocela sui numeri – si disse già allora – ma valorizzando anche un territorio. Arrivare a un milione di bottiglie con uve di proprietà lo fanno poche aziende al mondo e significa anche dare lavoro a cinquanta persone solo con quell'etichetta. Rimane comunque il più caro degli Arneis, (9,20 euro più IVA franco cantina) un centesimo in meno di quello di Bruno Giacosa e sa perché? Perché volevo dimostrare che chi ha le uve e più umile di chi le compra”.

E cosa sarebbe Ceretto senza il Blangé?
“Saremmo stati una piccola cantina da grandi vini rossi. Tutto quello che abbiamo fatto, dalla cantina, al ristorante, all'arte contemporanea, è tutto pagato dal Blangé. La vigna di Cannubi. Enrico Crippa (lo chef tre stelle Michelin del Piazza Duomo ndr) lavora con serenità grazie all'Arneis. Anche lei è ospite di questo vino. Il Blangè ha offuscato i nostri rossi, ma io e mio fratello non avevamo tempo di seguire Barolo e Barbaresco. Ora tocca alla nuova generazione. Tra due anni usciremo con la certificazione biologica su tutti i vini, mentre per volere di mio nipote Alessandro i 19 ettari di Barolo e Barbaresco sono condotti secondo i principi della biodinamica. Così come i tre ettari di orto a disposizione del ristorante. Mio nipote è un estremista e io adoro gli estremisti, non ho nulla da obiettare su quello che fa. Io mi occupo di mercati. Poi c'è Internet, non so usare la Rete e me ne vergogno, ma sono certo che aiuterà l'onestà della produzione nel vino e nel cibo”.

E lei che progetti ha?
“Mi diverte occuparmi di cibo e ristorazione. Il prossimo posto sarà a Barolo, dove manca una trattoria all'altezza. Al pian terreno un carretto che vende gelati con solo due gusti, nocciola e torrone, un angolo per i formaggi, un altro con tutti i Barolo prodotti da chi ha la vigna, una altro ancora con Barolo chinato e cioccolato e al primo piano il ristorante. Penso anche a un posto per famiglie, 500 posti, nel Roero, a Castellinaldo. Qui una volta c'era un laghetto che vogliamo ripristinare. Un ristorante tutto vetrate, dove si pesca e si mangia quello che si è pescato. Ovviamente si beve Blangé!”.

Mentre continuiamo a chiacchierare, qualche carriola fa avanti e indietro nella piazza. A luglio il ristorante Piazza Duomo si arricchisce dell'ospitalità e a me viene in mente di chiedere al signor Ceretto che idea ha del suo altrettanto dinamico concittadino Oscar Farinetti.

“Uomo intelligente e gli voglio pure bene. Sono stato uno dei primi ad essere contattato da Oscar per entrare in Eataly. Una cosa simile mi era già stata proposta nel 1978, quando Dino De Laurentiis voleva aprire cinquanta negozi Peck in America. Ci vedemmo a Cinecittà con altri potenziali investitori e c'era anche Luigi Veronelli che dava una mano all'impresario. Quando toccò a me, dissi che sarebbe stato impossibile trovare migliaia di competenze di altissimo livello. Già Peck all'epoca aveva problemi a trovare dei bravi banconisti a Milano. I De Laurentiis si limitarono ad aprire una pizzeria a New York che ha poi chiuso. Farinetti è andato ben oltre. Quando mi chiese 12 milioni di euro per entrare in società con il 20 per cento volli sapere quanto avrei contato: “Niente” mi rispose. Io ho una filosofia diversa, sono un perfezionista, un ricercatore della qualità estrema nelle cose che faccio. Lui ha costruito un impero, io ho lavorato sei anni per ottenere tre stelle Michelin, ma se penso a mio nonno che faceva il mezzadro, mi sento Rockfeller. Il successo si costruisce con persone di cui ti fidi e che sposano i tuoi progetti. Come ho fatto con Crippa che ha il 49 per cento della gestione del ristorante. Le persone non amo comprarle, le faccio partecipi. La tessera di partito non ce l'ho, ma il vero socialista sono io”.