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Scenari

La mia vita da cronista del gusto nella Milano “chiusa per Coronavirus”

25 Febbraio 2020
Via_Paolo_Sarpi Via_Paolo_Sarpi

(Via Paolo Sarpi deserta)

Che anche la Milano da bere potesse chiudere, qualcuno lo ha avvertito già sabato sera, nel vedere locali non proprio pieni. Eppure, era la settimana della moda.

Che si dovesse arrivare ad un’atmosfera – prendiamo a prestito un classico della letteratura italiana – da “Deserto dei Tartari” descritto da Dino Buzzati, era impensabile. Tant’è che la mattina di domenica 23 – prendo ad esempio il microcosmo attorno alla mia abitazione, Porta Romana, uno dei distretti emergenti dell’offerta enogastronomica – l’ampio marciapiedi antistante Marlà (corso Lodi 15), la pasticceria di Marco Battaglia e Lavinia Franco, premiati da Gambero Rosso come pasticceri emergenti, era occupata da gente in attesa che si liberasse qualche tavolo per consumare la colazione. A pochi metri di distanza, nel ristorante Pastamadre (via Corio 8), lo chef siciliano Francesco Costanzo e la panificatrice veneta Aurora Zancanaro del micropanificio “Le Polveri”, si stavano godendo il successo della loro idea di proporre la colazione all’inglese, ma a base di prodotti siciliani, con lo slogan “Etna Calling”, che hanno deciso di replicare una volta al mese, per il momento. Lo chef Diego Rossi e i suoi soci dell’iconica Trattoria Trippa (via Vasari 1, e siamo sempre a due passi dagli altri locali citati), sabato sera, alla chiusura, intuendo che il coronavirus non prometteva niente di buono, decidevano di prendersi una settimana di riposo, creando qualche difficoltà a chi, da settimane, cerca di conquistarsi un posto in questo locale di successo.

Per il prologo nel descrivere la Milano da bere che con l’arrivo non gradito del virus partito dalla Cina, abbiamo ristretto l’attenzione ad un piccolo triangolo di Porta Romana, convinti che il clima era piuttosto sereno. Invece lunedì 24, bruscamente siamo tornati dell’atmosfera descritta dal grande Buzzati, con i treni della metropolitana particolarmente accoglienti perché quasi vuoti, la Chinatown milanese (le vie Paolo Sarpi, Bramante, Canonica e dintorni) che stavano quasi diventando epicentro di una qualche città morta vista al cinema, con negozi e ristoranti chiusi, insegne spente, strade quasi vuote e, allargando la visita, Duomo e Musei chiusi – per effetto dei provvedimenti di Governo, Regione e Comune per cercare di arginare la diffusione del virus – prima ancora di arrivare al lunedì sera più triste di Milano, la chiusura della Milano da bere, con l’abolizione dell’happy hour che solitamente inizia dopo le 18 (orario imposto dalle autorità per la chiusura per limitare le situazioni di affollamento di più persone in un unico luogo).

E, il cronista – non solo quello che scrive di food&beverage, anche quello dirottato a seguire l’evoluzione del virus – che invece di modificarla, la deve chiudere l’agenda degli appuntamenti perché si trova improvvisamente tappato in casa a prendere nota dell’annullamento di incontri stampa, di colazioni di lavoro, di degustazioni, di apertura di nuovi locali e di sospensione di manifestazioni del settore. Salta la cena da Presso – in Chinatown – per gli incontri mensili del programma “DiGusto” curato dalla giornalista Roberta Schira del “Corriere della Sera” che il 25 sera doveva presentare lo chef Luca Zuterni del ristorante “La Pedrera” di Soncino. Niente presentazione – a Palazzo Lombardia – della manifestazione “Cheese&Friends festival” e del press lunch organizzato da Fondazione Una (uomo, natura, ambiente) per presentare il progetto “selvatici e buoni” finalizzato alla valorizzazione della carne di selvaggina.

Dalla pioggia di annullamento o rinvio di eventi, in ossequio alle indicazioni di Governo, Regione e Comune, per contenere la diffusione del virus, non si salva nessuno. C’è, per esempio, il rinvio della conferenza stampa di presentazione della Milano Wine Week e della fiera “Fa la cosa giusta” in programma dal 6 all’8 marzo, dopo che Myplan&Garden, in programma dal 26 al 29 febbraio, è stata rinviata a fine settembre. Come pure il tour nei cinque musei del cibo di Parma che il coordinatore delle strutture, Giancarlo Gonizzi, d’accordo con il segretario della Casa dell’Agricoltura di Milano Carlo Bonizzi e la presente dell’Arga Lombardia-Liguria, Barbara Reverberi, aveva organizzato per il 29 febbraio. Per non parlare di Identità Golose spostato a luglio. 

E, così, il cronista non “specializzato in coronavirus” si trova improvvisamente senza “lavoro”. Tutto rinviato a tempi migliori, perché sino al primo marzo non viene autorizzato nessun evento. Sperando che l’emergenza sanitaria non richieda altro tempo per arrivare alla definitiva normalizzazione. Se dovesse continuare, Milano sarebbe sommersa dalla crisi, evidenziano da Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi, perché i bar che chiudono i battenti alle 18 non ci stanno nelle spese, i ristoranti sono vuoti, gli alberghi deserti perché non ci sono più turisti in giro. Insomma, una situazione drammatica, con cali di fatturati o di presenze con punte del 70% e, l’assalto ad alcuni supermercati per riempire la dispensa di casa. E, se a Milano si ferma il commercio e il settore dell’accoglienza, salta tutto. An che se c’è qualcuno – a differenza delle decisioni adottate dai commercianti di origine cinese presenti in Chinatown che hanno chiuso i locali scusandosi con i propri clienti con avvisi attaccati alle vetrine -, come il gruppo “MU” – MU dim sum e MU corso como a Milano, MU fish a Nova Milanese e MU bao a Torino – hanno deciso di mantenere aperte al pubblico le attività fino a quando le disposizioni delle autorità locali e nazionali lo permetteranno.

“Si tratta di una decisione di gruppo dopo aver valutato i pro e i contro – spiega Liwei Zhou, titolare di MU Fish – Siamo consapevoli che restare aperti sarà un impegno importante in termini economici e di attenzione. Sappiamo che potrebbero arrivare giorni difficili se la situazione non apparirà davvero sotto controllo”. Tant’è che nel miscrocosmo di Porta Romana, un locale sempre pieno come Bokami, lunedì sera, alle 21, aveva solo due clienti. Per fortuna che gli altri settori hanno la possibilità di ricorrere allo smart working. E, ha scritto Gianni Balduzzi su L’Inkiesta: “Ci voleva forse l’epidemia di coronavirus per portare l’Italia ai livelli europei, avvicinandoci di colpo al resto dei Paesi occidentali, nell’ennesima classifica dove invece solitamente restiamo indietro. È troppo presto per dirlo, ed è possibile che, a emergenza finita, le concessioni di cui i lavoratori stanno godendo in questi giorni diventino solo un ricordo. Ma, intanto, l’Italia sta conoscendo come non mai il telelavoro, altrimenti detto, in maniera più cool: smart working. Fino a questo momento eravamo tra coloro che utilizzano meno questo strumento in Europa, con appena un 4,8% di persone che lavorano, in maniera stabile od occasionale che sia, da casa. Siamo, per dire, allo stesso livello della Lettonia, al di sotto anche della Grecia. Solo in Romania, Bulgaria e Nord Macedonia la percentuale di adozione dello smart working è stata in questi anni al di sotto di quella italiana”.

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