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Il progetto

“Elevare il cacio dalle stalle alle stelle”: prossimo obiettivo dei casari siciliani

27 Maggio 2013
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Roberto Rubino mentre spiega le qualità dei fromaggi artigianali

 “Conoscerlo, amarlo, servirlo, (sulle nostre tavole) per poi goderlo, non nell’altra, ma in questa vita”.

 Non sono solo i cardini, o le risposte esistenziali, della cristianità ma il verbo e le verità indiscusse che i catechisti siciliani del mondo caseario vanno andando a predicare per elevare alla dignità cardinalizia i loro quattro formaggi Dop:  il Pecorino siciliano, il Piacentino  ennese, la Vastedda della Valle del Belice, il Ragusano Dop. A cui si dovrebbero aggiungere altri formaggi dalla  stessa dignità,  anche se non godono di un riconoscimento ufficiale. Quali, la Provola dei Nebrodi, lo storico Maiorchino, la provola delle Madonie, il Fiore sicano, sempre meno prodotto, il Caciocavallo palermitano e il Caciocavallo ibleo. In verità la lista è molto più lunga, ma la caratteristica che distingue gli esclusi è il loro “nanismo” ovvero piccole e limitate produzioni che coprono limitati  mercati locali e rappresentano storia e  tradizioni che solo una rara e genuina passione tengono in vita. In sintesi la missione di alcuni Consorzi di tutela rappresentati dal loro presidente Massimo Todaro mira ad un risultato chiaro e semplice: elevare “dalle stalle alle stelle” il plebeo ed umile cacio e condurlo all’ onorabilità di  un prodotto  aristocratico, anzi superbamente elitario.


Massimo Todaro

E mirano, questi enti,  a centrare l’obiettivo con una serie di iniziative l’ultima delle quali si è conclusa alcuni giorni fa e si è caratterizzata con un corso itinerante tra le province siciliane, di analisi  sensoriale per formare nuovi evangelisti. Tutti reclutati tra addetti ai lavori quali ristoratori, esercenti alimentari, blogger gastronomici e altri. Docente il professore Roberto Rubino presidente dell’ANFoSC, l’ Associazione nazionale formaggi sotto il cielo, nata con lo scopo di recuperare e migliorare la qualità del latte e dei formaggi,  in  numerosi e differenti territori, obiettivi centrati in pieno grazie e studi e ricerche che col tempo si sono trasferiti dai  modelli di allevamento e di mangimi all’apporto degli antiossidanti, delle vitamine, dei polifenoli, dei precursori, delle componenti aromatiche, tutti elementi che, come dicono le scoperte, determinano la qualità. Occorreva però un passo successivo, far conoscere, e comunicare ai consumatori conquiste e risultati che mettano in risalto le differenze tra i due livelli di qualità rappresentati dai formaggi così detti artigianali e dai  formaggi industriali. Che possiamo sintetizzare in tre punti.

Il l primo sta nella qualità del latte che  si genera attraverso un modello di alimentazione. I formaggi dei piccoli allevatori sono prodotti con latte da animali al pascolo en plein air, alimentati  con foraggi freschi, fieni e paglia ottenuti nella zona di produzione, con ristoppie di grano e sottoprodotti vegetativi (l’erba cresciuta lungo i filari dei vigneti, frasche di ulivo della potatura invernale, cladodi di ficodindia, foglie di vite dopo la vendemmia). Produttori sottoposti, se appartenenti ad un consorzio di tutela, a rispettare i divieti dell’ utilizzo di prodotti di origine animale e di piante o parti di piante (semi) di trigonella, tapioca e manioca.

Il punto “due” impone un secondo obbligo: il rigoroso uso del legno, definito cassaforte della biodiversità. (vietatissimo sino a poco tempo fa per  la presunta inaffidabilità igienica, oggi ribaltata), perché favorisce e arricchisce la formazione di flora batterica e quella di milioni di fermenti lattici moltiplicandoli in altrettanti milioni di famiglie. Che spiegato in termini accessibili  sta per un prodotto finale particolarmente salutistico.

Punto tre: il latte “deve” mantenersi a 37 gradi perché la sua pastorizzazione a ottanta gradi manderebbe “in fumo” quelle che sono le caratteristiche aromatiche di un buon formaggio. Oltre alla dispersione di vitamine e  proteine e molecole aromatiche. Insomma nei piccoli caseifici si fa tutto il contrario dell’industria. Qui, il latte utilizzato viene da animali nutriti con mangime “stallatico”, non sui usa il legno e la pastorizzazione è consigliata, anzi è quasi un obbligo. E il prodotto  che ne esce si distingue a distanza perché non ha colore ha sempre meno sapore, è sempre uguale a se stesso e, come dicono gli assaggiatori, risulta un formaggio banalizzato. Altro aspetto qualificante del corso è quello di aver messo l’accento sull’aspetto salutistico del formaggio. Che smonta molti luoghi comuni. Il suo grasso non “sporca” le arterie, il colesterolo è contenuto e appartiene a quello “buono” perché ricco di omega3 e una dieta a base di buoni formaggi non alza la colesterolo nel sangue  ma anzi lo fa scendere.

Se il tutto vi sembra poco allora mettete queste chiacchere da parte e usate il formaggio per pasteggiare o ancor meglio utilizzatelo in cucina. Come? Beh un esempio mirabile lo ha offerto Roberto Toro chef del Ristorante del Timeo di Taormina, il Grand Hotel che ha ospitato il corso. Per la cena ha preparato per antipasto un “Flan di zucchina novella con fave fresche” servendole su di una fonduta di Pecorino semi-stagionato poi, come primo, un “Tortello di patata locale farcito con calamari fritti in crema di Ragusano e croccante del alga Nori”.


Tortello di patatr in crema di Ragusano Dop

Per seguire con il “Filetto di maialino dei Nebrodi in crosta si pistacchio e Piacentino ennese con fagioli Badda di Polizzi” e azzardando un finale provocatorio, ma azzeccatissimo, con una “Mousse di pera biologica su Sablé alla fava di cacao con gelato di Vastedda del Belice e morbidosa al miele dell’Etna”. Il tutto annaffiato dai “gioielli” enologici dell’Azienda Agricola Riofavara tra cui il Marzaiolo bianco lo “Spaccaforno 2010” lo “Sciavè 2010” e il “Notissimo” Moscato di Noto 2012.

Stefano Gurrera