Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Numero 34 del 08/11/2007

racconto3: Inchiostro

07 Novembre 2007

Inchiostro

«Questo è vino nero» mi dici, «nero come il sangue». Sorridi. Prendi la cassetta di bottiglie di vetro, messe a sgocciolare dopo il lavaggio, e la porti a terra. Le bottiglie sono allineate sottosopra, appoggiate come birilli su un foglio di giornale. «Ci vuole il paginone centrale del quotidiano», racconti, «lo uso come termometro. Quando la carta cambia colore e si scurisce, le bottiglie sono pronte. Per questo uso il quotidiano». Mi chiedi di aiutarti a portare la damigiana da 54 litri sul tavolino. «Una volta ce la facevo da solo», chiarisci, «ma erano altri tempi». Al mio tre. Via. Ti sistemi su uno sgabello di legno e tiri via le bottiglie dalla cassetta. Le allinei ai tuoi piedi. Infili una cannula marrone, sostenuta da una bacchetta di bambù, nella damigiana. Poi fai scivolare un imbuto nel collo della prima bottiglia. Mi guardi e mi sorridi di nuovo. Tiri il fiato nel petto, ti gonfi come un salvagente, metti la cannula in bocca e schiocchi un risucchio deciso. Vedo il vino correre nella pompa opaca, come il medicinale di una flebo. Ti arriva in bocca, tu sfili rapido la canna e la metti nell’imbuto. Il vino si fionda nella bottiglia e la colora, la pressione è imponente come una fontana aperta al massimo. «E’ proprio nero», dici, «quest’anno è un inchiostro». Sono trentacinque anni che lo dici. Tutti gli anni, da trentacinque anni, dopo il primo fiotto, il vino è un inchiostro. Tutti gli anni, da trentacinque anni, ti metti qui su questo balconcino di tre metri, in questo appartamento di ottanta metri, al sesto piano di uno dei duecento palazzi di questo quartiere periferico, e prepari le sessanta bottiglie da tre quarti per l’inverno. La damigiana di aglianico dei costoni di Monte di Procida te la fai arrivare direttamente da lì. Poi compri sessanta bottiglie nuove nel negozio sotto casa, compri settanta (dieci in più, non si può mai sapere) tappi di plastica con la scalanatura in una ferramenta di Pozzuoli e settanta gabbiette di metallo con la chiusura a chiavetta. «Quest’anno è inchiostro», ribadisci, mentre riempi la decima bottiglia, «inchiostro vero» e fai una smorfia di piacere con la bocca rigirandoti sulla lingua il sapore del primo sorso. «Mio padre», dici, «ne aveva tre filari in un costone, nel fossato sulla panoramica. L’uva la premeva con i suoi piedi». Sai bene che non sono un bevitore di vino. Con me la bottiglia buona è sprecata. Quando prendo un sorso di vino sento la lingua che mi pizzica come punta dal cacao amaro, poi mi stringe la gola come un singhiozzo e poi scende nell’allegria e mi bacia la pancia dal di dentro. Come un solletico, lo stesso che da bambino mi faceva la tua barba ruvida sulla mia guancia, le rare volte che mi davi un bacio, per un bel voto o per un tuo, improvviso, momento di gioia, che ti fioriva negli occhi, come adesso che la ventesima bottiglia è piena e decidi di fare una pausa. Stacchi la pompa. Dici che sei stanco ma in realtà vuoi solo risentire l’emozione, e lo sbuffo di vino in bocca, del flusso che si riavvia. Resto qui a guardarti. Lo faccio sempre quando imbottigli, da trentacinque anni. Non me lo hai mai chiesto ma so che te lo aspetti. Sei felice di avermi lì, a guardare quel gioco meccanico e antico. «Questo vino è raro», dici, «raro e nero, come il sangue». E sorridi ancora di quest’idea corposa e densa del sangue. Il sangue nero di vena, mica quello slavato delle feritine. Potresti comprare le sessanta bottiglie già belle e imbottigliate. E invece vuoi battere col martelletto sul tappo e poi vuoi chiudere le gabbiette con le tue mani fino a piagarti le dita. Guardandoti, in questo rito dell’imbottigliamento, capisco il tempo, e che cos’è la memoria, e dove si depositano i ricordi, e dove ti conserverò, papà, quando non ci sarai più.

Antonio Menna