Una mescita di qualità sarebbe bellissima, se ci fosse. Sarebbe l’antidoto al calo dei consumi, aumenterebbe la biodiversità nelle wine list, aiuterebbe a (ri)innamorarsi di un panorama enologico, quello italiano, vario, affascinante e sfaccettato, una mescita di qualità sarebbe una vittoria per tutti. Solo se esistesse.
Giudico i ristoranti dalla mescita, a cominciare dai calici in cui viene servito il vino. Dovrebbe essere scontato, evidentemente non lo è. Come posso pensare che il vino che mi servono al tavolo valga qualcosa se me lo servono in calici da pochi centesimi, spessi, opachi, ineleganti, albatri baudelairiani sopra i tavoli (abbastanza) vuoti dei ristoranti estivi. Giudico i ristoranti dalla mescita e quindi, serve poco a capire dove ti trovi. L’offerta spesso si limita a: bolla no name, rosso no name, bianco no name e nei casi più eleganti un rosato, ovviamente no name.
Dopo avere ucciso il consumo della bottiglia, scrivendo in carta ricarichi da fare invidia ai cartelli messicani, il ristoratore medio italiano, si è concentrato sull’uccisione della mescita.
La wine list media, nei ristoranti dell’estate della frenata dei consumi, delle spiagge vuote, e della povertà vacanziera, presenta vini no name, spesso spillati dal bag in box (sì, succede anche questo), spesso si riporta solo il nome del vitigno, mai a meno di sei euro. Da un lato, sui media tradizionali, sui social, nei magazine non solo di settore, pagine di story telling, sul territorio (terroir,pardon!) sulle pratiche agricole virtuose, sulla ricerca anche grafica, legata al vino e alla sua bottiglia, dall’altro, calici di vetro che arrivano al tavolo già pieni, nel silenzio assordante degli operatori che spesso ne sanno descrivere solo il colore, ovviamente solo in italiano.
Questo sembra essere lo stato dell’arte del wine service nella maggior parte della ristorazione italiana che si lamenta, nell’Italia del calo dei consumi del vino, nell’Italia che volta le spalle al liquido della gioia, in favore di cose arancioni piene di ghiaccio, e altre, malinconiche, bevande allegre. I clienti si rifiutano di spendere 50 euro per bottiglie che ne costano 5, (nell’era delle wine app e delle enoteche online era prevedibile), bene io elimino la mescita e offro a prezzo fisso e insensato un vino specificando solo l’uva di cui è fatto che arriva al tavolo già dentro il calice.
Su queste basi o con queste premesse possiamo solo prepararci al disastro, che infatti si sta avvicinando, sorso dopo sorso. Se da un lato nonostante dazi e turbolenze economiche di ogni tipo l’attenzione verso il vino italiano nel mondo cresce, come la conoscenza che di questo mondo i turisti hanno, durante i pranzi e le cene vacanziere, l’unica opzione per chi desideri un calice di vino è di dovere strapagare vino scadente, a volte nemmeno versato da una bottiglia. Una ristorazione al collasso che si aggrappa a questo tipo di pratiche di pura estrazione speculativa, una ristorazione che vive il vino come mera cash cow con cui gonfiare il conto finale ad un consumatore medio sempre più impoverito e sospettoso, è una ristorazione che si avvia ad una morte lenta e dolorosa e che trascina con sé un’intera filiera produttiva.
Le uniche motivazioni razionali, commerciali ed etiche per giustificare ricarichi sul vino che vadano oltre il 200% (che già non è proprio poco) sarebbero due:
1) La presenza al tavolo di un sommelier pagato da sommelier in grado di raccontare e servire il vino in maniera se non consona almeno umana. Tuttavia la presenza del sommelier nel panorama della ristorazione italiana, sopravvive (e non sempre), solo negli stellati e nel fine dining (categoria che sempre più spesso è autocertificata non si sa su quali basi ma questo è argomento per un altro pezzo), in tutte le altre insegne, nessuna delle persone ha all’attivo non dico una formazione (non sia mai), ma almeno qualche assaggio dei vini presenti in carta.
2) Una ricerca sul prodotto, anche locale, la presenza nella carta di produttori di nicchia o almeno fuori dai circuiti del vino industriale, la possibilità insomma di trovare delle bottiglie che non siano presenti nella grande GDO, o nei Cash & Carry. La verità è che sempre più spesso le selezioni degli scaffali di GDO e Cash & Carry sono molto più interessanti e ricercate di quelle dei ristoranti di fascia media e alta in Italia.
Si vuole quindi lucrare su ricarichi in stile Cartello di Sinaloa, su bottiglie che possono essere reperite ovunque a prezzi quattro o cinque volte inferiori, servite da personale non formato, (mal pagato), in calici spessi e pesanti come vetri antiproiettile, per poi lamentarsi della crisi, piangendo tutti assieme i bei tempi in cui si lucrava allegri e tranquilli.
Le persone non hanno smesso di bere, non hanno smesso di amare il vino, non hanno smesso di emozionarsi col vino, hanno smesso di bere vini mediocri a prezzi irreali in calici orrendi. Nell’epoca della wine list digitali e scansionabili si potrebbero cambiare a costo zero le carte della mescita, proporre al calice vitigni strani, produttori innovativi, tesori da scoprire, si potrebbe educare lo staff prima e il cilente poi alla meravigliosa magia dell’ignoto, al fascino dell’inedito, a quella curiosità che in tutto il mondo sembra mancare ma che è alla base di ogni sorso di vino autentico, basterebbe poco, e sarebbe bellissimo, per tutti.