Un mercato che vale due miliardi di euro e che rischia di essere messo a rischio dalle tariffe aggiuntive annunciate dal presidente Usa, Donald Trump, a partire dal primo di agosto. Ci sono 15 giorni di tempo per trovare un accordo sui dazi che possa rendere meno onerosa la situazione per il vino italiano che è esposto verso gli Usa per il 24% dell’export totale. Più di Francia, (quota Usa al 20%) e alla Spagna (11%). Una fetta di mercato alla quale è difficile rinunciare e sostituire, almeno nel medio periodo.
Venerdì scorso una lettera di della US Wine Trade Alliance (Uswta) – l’associazione americana che rappresenta a tutti i livelli il commercio vinicolo statunitense nella lotta contro le tariffe – inviata a Unione italiana vini (Uiv) ha fatto un appello alla filiera enologica italiana ed europea per attuare pressione sui negoziatori del Vecchio Continente. Secondo l’associazione americana l’intenzione dell’amministrazione stelle e strisce sarebbe di imporre dazi al 17% sul mondo del vino ed esenzione per gli spirits. “A queste condizioni – per noi inaccettabili – il danno potenziale stimato da Uiv per il vino italiano, che destina verso gli Usa il 24% del proprio export, è compreso in una forbice tra 300-330 milioni di euro nei prossimi 12 mesi, mentre per i partner oltreoceano – importatori, distributori, ristoranti, bar – si aggira su 1,9 miliardi di dollari”, spiega il presidente Uiv (Unione Italiana Vini) Lamberto Frescobaldi. Un danno, questo, destinato a lievitare in maniera direttamente proporzionale alla debolezza del dollaro. Secondo l’Osservatorio Uiv, il rischio – qualora non si attivasse una riduzione dei ricavi lungo la filiera – è di trovarsi, a fine 2026, di poco sopra ai valori espressi nel 2019.
“Oggi più che mai dobbiamo dirci europei e serve mantenere forte la trattativa a livello comunitario”, commenta Francesco Liantonio, presidente di ValorItalia la società leader in Italia per il controllo e la certificazione dei vini a Denominazione d’Origine, Indicazione Geografica e dei vini con indicazioni del vitigno e/o dell’annata, “a noi il compito di trovare nuovi mercati ed essere sempre di più attenti a nuove opportunità: ricordiamo che da sette mesi viviamo questo momento con il mercato Usa; abbiamo avuto vini che viaggiavano e che non sapevano cosa avrebbero trovato al loro arrivo. Bisogna guardare oltre e andare avanti. Perché così ci facciamo tutti male. Il made in Italy non è solo un prodotto alimentare ed il vino è il suo ambasciatore, è storia, status, è cultura”. “Adesso è difficile fare delle previsioni anche perchè il mercato americano è il mercato per il nostro agroalimentare”, spiega Silvana Ballotta ceo di Business Strategies, “i dazi arrivano in un momento che già era difficile per il vino con una contrazione di consumi. Sono il classico ‘cigno nero’ e spero che da qui ad agosto possa esserci una virata come ne abbiamo viste tante negli ultimi tempi”. Intanto il mercato continua a puntare sul libero mercato. “Dal mio punto di vista”, continua ancora Ballotta, “le aziende italiane non si sono arrese. In tante credono ancora nel mercato del vino Usa puntando sull’Ocm e sulla programmazione di campagne di comunicazione proprio nel mercato Usa”. La partita si gioca soprattutto in Europa: “In Commissione Ue bisogna cercare di negoziare in modo intelligente e questa passa da altre contropartite che gli Stati possono mettere in pista”.
“Al di là dei forti dubbi sull’efficacia sui benefici che questi dazi potranno avere anche nel lungo periodo, ciò che dobbiamo fare è un focus in mercati diversi, soprattutto nel nostro mercato interno: la speranza è che – almeno – tutto questo attragga più turisti americani in Europa e in Italia in particolare” commenta l’imprenditore veneto Sandro Bottega a capo di Bottega SpA, tra i produttori più prestigiosi di Prosecco. Ma gli effetti dei dazi già si sentono: “in questa fase di grande incertezza, si registra già una riduzione degli ordinativi da parte degli importatori statunitensi, timorosi dell’impatto che i dazi potrebbero avere sui costi finali e sulla competitività del prodotto”, scrive in una nota Federdoc. “Un attacco che danneggia le nostre imprese”, dichiara Cesare Baldrighi, presidente di Origin Italia, l’associazione dei Consorzi di tutela delle DOP e IGP “è doverosa un’alzata di scudi da parte della società civile, della politica e dei corpi intermedi, di fronte alla cedevolezza dell’Unione Europea, che appare solerte nel concedere vantaggi fiscali alle big tech, mentre i cittadini europei, con redditi erosi dall’inflazione, sopportano una pressione fiscale ben più pesante. È una questione di equità, ma anche di visione politica e di difesa dei nostri modelli produttivi”.
Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv), il vino italiano rappresenta il 40% dell’export totale dell’Ue verso gli Stati Uniti. Ad aprile 2025 (primo mese soggetto ai dazi) l’export di vino italiano verso gli Usa ha registrato una battuta d’arresto, con un calo del 7,5% a volume e del 9,2% a valore. La domanda americana di vino si concentra al Sud (4 bottiglie su 10 sono stappate qui), seguito da West (25%), Northeast (10%) e Midwest (16%). La gran parte dei consumi di vino negli Stati Uniti è rappresentata da prodotti domestici, che valgono il 70% dei volumi consumati. Solo 3 bottiglie di vino stappate su 10 sono d’importazione dall’estero, ma, tra queste, le etichette italiane si posizionano al primo posto con una quota di mercato pari al 37%. Difficile pensare di piazzare nel breve termine in altri paesi il vino che non sarà esportato verso gli Usa.