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Il prodotto

Slow Food, svelati tre nuovi presìdi: c’è anche l’enantio a piede franco

21 Settembre 2022
Il tralcio della vite che viene piegato e interrato affinché la pianta si propaghi - ph Tommaso Martini Il tralcio della vite che viene piegato e interrato affinché la pianta si propaghi - ph Tommaso Martini

Sono tre i nuovi presìdi svelati da Slow Food.

Il primo è l’enantio a piede. Si tratta di un antico vitigno autoctono diffuso nella Vallagarina, al confine tra le province di Trento e Verona, e ha una peculiarità davvero speciale: il modo in cui si moltiplicano le piante. Il Presidio Slow Food sarà presentato ufficialmente a Terra Madre Salone del Gusto, a Torino dal 22 al 26 settembre: l’appuntamento è in programma sabato 24 presso lo stand di Slow Food Trentino. Parteciperanno i tre i produttori che aderiscono al Presidio: l’azienda agricola Roeno della famiglia Fugatti di Brentino Belluno (Verona), l’azienda agricola Vallarom di Barbara Mottini e Filippo Scienza di Avio (Trento) e l’azienda agricola Lorenzo Bongiovanni di Sabbionara (Trento). Per parlare del nuovo Presidio Slow Food dell’enantio a piede franco potremmo cominciare dall’inizio, cioè da Plinio il Vecchio e da quella storia che ci riporta indietro di un paio di decine di secoli, o magari dal fondo, cioè dalla vinificazione e dall’imbottigliamento di questo vino che nasce in Vallagarina, tra le province di Trento e Verona. Ma un nome così curioso per un vitigno non lascia spazio a dubbi: meglio partire da lì. Enantio a piede franco, dunque, si riferisce a una varietà di vite – l’enantio, appunto – le cui piante nascono per propaggine – a piede franco – senza essere innestate. Niente barbatelle, insomma: queste piante corrono sul terreno e, con la sapiente mano dei viticoltori, si riproducono.

Le viti hanno i piedi?
A spiegare il sistema della propagazione delle viti è Lorenzo Bongiovanni, referente dei tre produttori che aderiscono al nuovo Presidio Slow Food: “Si prende un tralcio (cioè un ramo giovane, ndr) della pianta, lo si ripiega verso il terreno, lo si interra in una buca per circa 30 centimetri e poi lo si fa riemergere dal suolo per una spanna. Si riempie la buca e si aspetta che il tralcio “spinga” verso l’altro, cioè cresca, mentre dalle gemme sotto terra le radici si propagano”. Poi, è solo questione di tempo: “Nel giro di due o tre anni, il tralcio sarà grande e forte, così si procederà a separarlo dalla pianta madre”. A proposito di pianta madre: anche lei, cioè la prima a venire piantata in vigna, è autoctona al 100%: “È da più di quarant’anni che non ne faccio, perché non abbiamo più fatto nascere nuovi vigneti ma soltanto propagato quelli esistenti, ma il meccanismo prevede di prendere un tralcio da un’altra pianta di enantio, farla radicare in acqua e poi piantarla. In altre parole, niente portainnesti esterni, nessun materiale vivaistico, ma soltanto il patrimonio genetico della stessa pianta”.
Parlare di viti a piede franco, però, significa anche fare un tuffo indietro nel tempo lungo almeno centocinquant’anni, a quando cioè l’Europa conobbe a proprie spese la fillossera, la più temibile delle minacce alla viticoltura. L’insetto, importato accidentalmente dal nord America, attaccò le viti di quasi tutta Italia: a fine Ottocento era segnalato in 900 comuni, nel 1931 tutte le province del nostro Paese (a eccezione di Frosinone, Rieti e Napoli) avevano avuto a che fare con questo parassita. La vite, nel giro di mezzo secolo, era sul punto di sparire per sempre. La soluzione fu quella di riprodurre le viti per innesto, cioè unendo un tralcio dotato di gemme, con un piede, o innesto, resistente alla fillossera. La viticoltura, in questo modo, si salvò. Ma che cosa c’entra tutto questo con le viti a piede franco? Prima dell’arrivo della fillossera, gran parte dei vigneti europei si basavano proprio sul metodo della propagazione. Dopo, questo sistema finì nel dimenticatoio un po’ dappertutto.

Questione di terreno
La propagazione resiste ancora oggi soltanto in pochissime parti d’Italia, aree dove la composizione del suolo, oppure l’altitudine, hanno impedito alla fillossera di proliferare. La Vallagarina, lungo l’asse del fiume Adige tra le province di Trento e di Verona, è uno di questi ambienti: grazie alla struttura sabbiosa-silicea del terreno, l’afide non è riuscito ad attaccare l’apparato radicale di queste vigne e ancora oggi viene quindi coltivato l’enantio. “La superficie coltivata a enantio, negli ultimi trent’anni, si è però ridotta moltissimo” spiega Tommaso Martini, referente Slow Food del Presidio. La superficie totale, oggi, è tra i 35 e i 40 ettari, calcolando anche i vigneti appartenenti ad aziende che non aderiscono al Presidio Slow Food. “A valorizzare questo vitigno, a imbottigliare l’enantio proveniente da vigneti a piede franco commercializzandolo con un’etichetta ad hoc – gli fa eco Bongiovanni – siamo rimasti in tre. Gran parte della produzione, invece, viene utilizzata come uva da taglio per altri vini rossi del territorio”.

Dall’inizio alla fine: Plinio il Vecchio, l’imbottigliamento e gli anni della lambrusca
“Oltre alla particolarità dovuta al sistema della propaggine, l’enantio vanta anche una storia lunghissima – prosegue Martini –. Già nel primo secolo Plinio Il Vecchio lo citava in uno dei volumi della sua “Naturalis Historia”, scrivendo che “la brusca hoc est vite silvestris, quod vocatur oenanthium”, cioè che “uva lambrusca è la vite selvatica chiamata enantio””. “Fino alla metà degli anni Ottanta, la varietà era molto diffusa e in questa zona tra il basso Trentino e l’alto Veronese siamo cresciuti a lambrusca” scherza Bongiovanni. Il nome non induca però in confusione: nulla a che vedere con il Iambrusco emiliano: l’enantio è a foglia frastagliata e quel termine richiama la natura selvatica e robusta della pianta. Caratteristiche che si ritrovano anche nel vino, dal color rosso rubino intenso, un sapore secco, acidità ben presente e patrimonio tannico ben equilibrato, che lo rendono adatto agli abbinamenti con i piatti rustici della cucina trentina, ma anche con salumi e formaggi stagionati.

La vendemmia è tardiva, nella seconda metà di ottobre, e la resa bassa. In cantina, poi, i vignaioli possono sbizzarrirsi: “Il riconoscimento dell’enantio a piede franco come Presidio Slow Food è un passo importante anche in questo senso – conclude Martini – perché, al di là della comune origine e fatto salvo il disciplinare che va nella direzione di un vino quanto più possibile naturale, ogni produttore mette in commercio un vino diversissimo dall’uno dall’altro. Tanto per fare un esempio, c’è chi lo commercializza l’anno successivo alla vendemmia e chi aspetta tre o quattro anni. Su una base comune, insomma, nasce un progetto che lascia esprimere le identità delle aziende coinvolte: un valore aggiunto”.

(I pomodorini siccagni di Zagarise non ancora completamente maturi – ph Alberto Carpino)

Ma scopriamo gli altri due presìdi: un pomodorino e un’arancia. Una strana coppia appena inaugurata in Calabria: li raccontiamo insieme, perché entrambi sono in arrivo a Torino per Terra Madre Salone del Gusto. L’arancia belladonna di San Giuseppe sarà presentata ufficialmente a Terra Madre il 23 settembre alle 11.30: nello stand della Regione Calabria allestito a Parco Dora è in programma la degustazione della composta di arance, a cura dei cuochi dell’Alleanza Slow Food, in diverse preparazioni, dalla gelateria alla pasticceria. Appuntamento al 24 settembre alle 12, invece, per il pomodorino siccagno di Zagarise: la degustazione, in questo caso, vede protagonista la conserva di pomodorini siccagni. Con l’espressione coltivazione seccagna, in ambito agrario, si definisce quella che non richiede irrigazioni, ovvero in asciutta. Ecco spiegato, in pochissime parole, il segreto del pomodorino siccagno di Zagarise. Una cosa, però, è bene chiarirla subito: non è vero che questa varietà di pomodoro non ha bisogno di acqua. È però senz’altro vero che il suo fabbisogno idrico è infinitamente ridotto rispetto alle altre varietà diffuse in Italia. “«Se le piantine vengono trapiantate ad aprile, grazie alle due o tre normali precipitazioni nella stagione estiva il nostro pomodoro riesce a crescere e a dare frutti” spiega Luigi Mangone, referente dei quattro produttori che oggi aderiscono al Presidio. “Una stagione come quella di quest’anno, senza piogge da maggio a luglio, è però un problema anche per il siccagno di Zagarise”.

Decenni per selezionare i semi più resistenti
Ma com’è possibile che una pianta di pomodori sappia resistere a condizioni simili? «Come per tutte le piante, la selezione operata dai contadini ha prodotto un miglioramento nella varietà: anno dopo anno, gli agricoltori hanno scelto le piantine più resistenti e, da quelle, ottenuto i semi per gli anni successivi. In questo modo si è arrivati ad avere piante in grado di sopportare carenze idriche importanti e dalle spiccate caratteristiche di adattamento» aggiunge Mangone. Il pomodorino è coltivato in tutto il territorio di Zagarise, comune del catanzarese che copre un dislivello di quasi mille metri, dai circa 65 metri sul livello del mare del punto più basso fino a quote di montagna: “Il suolo di Zagarise è certamente fertile, ma il fatto che la pianta cresca ovunque è la dimostrazione della sua capacità di adattamento” aggiunge il produttore. Non solo, la selezione fatta nel tempo ha prodotto anche maggiore resistenza ai parassiti: «Le piante oggi sono protette solo con macerati di ortica, di aglio, di peperoncino o di cipolle, soluzioni che vengono irrorate in maniera preventiva» prosegue Mangone.

Un pomodoro che risponde alle sfide del presente
“La particolare resistenza del pomodorino siccagno di Zagarise si inserisce in maniera significativa nel quadro climatico odierno, caratterizzato da temperature alte e siccità estrema, come abbiamo potuto sperimentare negli ultimi mesi” spiega Giuseppe Caruso, responsabile della biodiversità nella Condotta Slow Food di Catanzaro. Per un produttore, scegliere di coltivare una varietà in grado di sopperire agilmente alle carenze idriche può fare davvero la differenza. E tutto ciò può avere riflessi economici interessanti: “Valorizzare un prodotto agricolo in un territorio che soffre lo spopolamento, come l’area di Zagarise, può dare una boccata d’ossigeno a un’economia in sofferenza – aggiunge Alberto Carpino, referente del progetto Presìdi Slow Food in Calabria –. In quest’area, oggi si producono perlopiù olio e miele: aggiungere a questo paniere di prodotti il pomodorino, la cui piccola produzione oggi è assorbita dai ristoranti e dalle osterie che aderiscono all’Alleanza Slow Food dei cuochi, porterà sicuramente dei benefici”.

Frutti piccini, ma gustosi
Il pomodorino di Zagarise, di forma tondeggiante, liscia o leggermente costoluta e colore rosso intenso, normalmente pesa tra i 40 e i 60 grammi: una pezzatura ridotta, come di piccole dimensioni è la pianta che difficilmente raggiunge il metro di altezza. Ogni pianta assicura all’incirca un chilogrammo di bacche, quantitativi ragguardevoli considerate le dimensioni del fusto, ma decisamente inferiori alle rese delle cultivar di pomodori più produttivi che, infatti, negli ultimi anni hanno invaso il territorio di Zagarise provocando la scomparsa del siccagno. In pochissimi lo hanno custodito: tra loro, alcuni giovani agricoltori che negli scorsi mesi hanno coinvolto l’amministrazione comunale di Zagarise nel lancio del Presidio Slow Food, ottenendo immediato sostegno dal sindaco Domenico Gallelli. “Il gusto è il punto forte di questo pomodorino – spiega Mangone –. Non avendo ricevuto molta acqua, le sostanze come i polifenoli non vengono diluite e di conseguenza il sapore rimane intenso, tanto che da noi i pomodori si mangiano senza sale perché sono sapidi già così”. In cucina, l’utilizzo più frequente dei pomodorini siccagni è a crudo, in insalata, ma la poca acqua e la buccia spessa li rendono ideali anche per la conservazione invernale: “C’è chi ne fa conserva, chi i pelati o i filetti senza buccia – continua il produttore –. Alcuni preferiscono far essiccare i pomodorini, altri li utilizzano per u salaturu, una salamoia con pomodori, olive e peperoni verdi, aglio e finocchietto. I più temerari, alla fine della stagione, li raccolgono ancora acerbi e li appendono per avere il pomodoro fresco in autunno inoltrato”.

(A pochi chilometri dal centro di Reggio Calabria nascono le arance belladonna di San Giuseppe – ph A. Carpino)

L’arancia belladonna cresce centoventi chilometri più a sud, nella frazione di Villa San Giuseppe del Comune di Reggio Calabria. Ci troviamo a nord del centro della città, nell’area del fondovalle compresa tra le fiumare del Gallico e del Catona, due corsi d’acqua che dall’Aspromonte scendono fino allo Stretto di Messina. Se resta misteriosa l’origine del nome, note – e degne di nota – sono le caratteristiche di questo frutto: si tratta di una varietà di arance tardive, che giungono a maturazione tra aprile e maggio. Hanno pezzatura media, che si aggira intorno ai 200 grammi, forma ovoidale e buccia sottile: il frutto, ottimo da mangiare fresco, può anche essere trasformato in marmellate e scorzette candite. La polpa dell’arancia belladonna è bionda, molto ricca di succo e con pochissimi semi. Proprietà organolettiche che, fin dall’Ottocento e per tutta la prima metà del secolo scorso, ne hanno assicurato il successo: «Fino agli anni ‘70 questa coltura produceva un reddito importante e rappresentava una voce significativa del comparto agricolo della nostra provincia, perché il prezzo corrisposto era superiore a quello di altri prodotti» spiega Franco Saccà, referente Slow Food del Presidio.

Le arance dello zar
La gestione degli aranceti avveniva in colonìa, cioè con la concessione dei terreni da parte dei grossi proprietari terrieri ai coloni, che lavoravano negli appezzamenti. Il superamento di questo modello, la conseguente frammentazione della proprietà, la sostituzione della belladonna con varietà commercialmente più popolari e precoci come l’arancia tarocco, e anche il progressivo abbandono dell’agricoltura in favore di altri mestieri hanno contribuito alla perdita della belladonna. Quelli che da queste parti ancora adesso vengono chiamati giardini, cioè gli aranceti, oggi non superano l’ettaro come superficie, e rappresentano produzioni marginali per le aziende agricole che difficilmente potrebbero basare la propria sussistenza economica su questa varietà. “È un peccato, anche perché anticamente l’arancia belladonna veniva esportata ovunque, sia in Italia sia all’estero. Si dice addirittura che fosse sulla tavola degli Zar di Russia – continua Saccà –. L’abitudine a esportare queste arance era così consolidata che ancora oggi si usa misurare il raccolto in “vagoni”, cioè nei carichi che un tempo partivano dalle stazioni ferroviarie delle località di Gallico e Catona, pari a 300 quintali”.

Il valore della vita di comunità
“La belladonna è in via d’estinzione a causa dell’abbandono degli appezzamenti da parte dei produttori, avvenuto perché questa arancia ha smesso di essere remunerativa – sintetizza Francesco Caridi, referente dei cinque produttori che aderiscono al Presidio Slow Food –. Allo stato attuale, difficilmente si recuperano i costi di produzione. Perché, allora, lo faccio? Mi spinge l’eccellenza del prodotto e il fatto che l’arancia esprime l’identità del nostro paese: la vita, da queste parti, per lungo tempo ha girato attorno a questo frutto». La produzione, sommando i cinque produttori che aderiscono al Presidio, si attesta intorno ai cinque-seicento quintali: «C’è l’annata in cui le piante sono cariche e quella in cui le arance si contano sulle dita di una mano – conclude Caridi – quindi negli anni, per cercare di mantenere in vita le aziende agricole, abbiamo diversificato”.

C.d.G.