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L'intervista

Albiera Antinori svela i segreti del mercato cinese: “Vinci solo se ti affidi a gente competente”

27 Marzo 2017
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(Albiera Antinori ed Emili Xye)

di Bianca Mazzinghi

Incontriamo Albiera Antinori nella hall del Xanadu hotel di Chengdu. “Per tre giorni – dice – saremo praticamente chiusi qui dentro: abbiamo le riunioni e le interviste al primo piano, le conferenze al secondo, gli eventi al terzo, le cene all’ultimo… Cofco ha riunito qui 300 distributori e organizza tutto nell’hotel”. 

Cofco è il nuovo importatore di Antinori, gigante statale del settore alimentare che dal 2014 distribuisce vini importati, come Penfolds, Santa Rita, Faustino. Un paio d’anni fa bussò alla porta di Antinori: “Loro cercavano vino italiano, noi una situazione diversa e piano piano ci siamo incontrati”, racconta Albiera. “Certo, è stata una trattativa lunga con diversi contatti, un’azienda statale come Cofco ha ritmi diversi rispetto a un piccolo importatore”. Ma dopo qualche tempo di discussione e un anno di assestamento, il vino a ottobre è arrivato in Cina “con le etichette giuste” e la distribuzione finalmente partita. Questi giorni di fiera a Chengdu segnano la presentazione ufficiale della collaborazione. Ne abbiamo approfittato per ripercorre con la presidente di Antinori la storia dell’azienda in Cina, le difficoltà, i traguardi, le aspettative.

L’accordo con Cofco arriva dopo diverse esperienze in Cina. Quando siete entrati nel paese per la prima volta e quale la vostra storia in questi anni?
“Abbiamo iniziato circa 15 anni fa, prima con Summergate, poi con un import libero, affidandoci soprattutto agli importatori Hoonay, Ruley e Links. Questo periodo è servito per rendersi conto delle opportunità, del modo di lavorare e del mercato extra degli importatori locali rispetto agli stranieri più tradizionali come Summergate. Loro servivano i grandi hotel, i ristoranti europei, ma il mercato cinese è un’altra cosa, per questo abbiamo cercato distributori più ‘cinesi’”.

E tutto è diventato più facile…
“E questo ha comportato altri problemi dovuti alla volatilità del mercato. Quindi abbiamo detto: ok che sia cinese, ma un po’ più strutturato. E siamo atterrati su Cofco”.

Pochissime cantine italiane sono soddisfatte della situazione in Cina. Voi vi sentite adesso una tra le aziende piazzate meglio?
“Ci abbiamo messo tempo a mettere in moto la macchina, ma certamente Cofco potenzialmente potrebbe essere un buon partner. Essere piazzati bene per me significa però essere presenti nei negozi migliori, nei ristoranti migliori, avere una distribuzione in tutto il paese. Abbiamo praticamente iniziato adesso, in questi due giorni daremo la spinta, tra sei mesi capiremo meglio. Si tratta di partire abbastanza da zero perché i canali sono diversi rispetto a quelli esplorati fino a oggi e Cofco raggiunge una clientela diversa, con diffusione nazionale”.

Chi è un partner cinese ideale per una cantina come la vostra?
“Un importatore serio che non promette numeri assurdi, vende il vino che compra, cerca di costruire il brand e possibilmente paga in anticipo. In Cina si può anche vendere molto ma è molto difficile costruire il brand. C’è differenza tra vendere e costruire qualcosa sul lungo termine”.

E Cofco risponde a queste caratteristiche?
“Cofco è un partner che definirei burocratico, grande e statale. E` servito quasi un anno per iniziare, ma ora sono quattro mesi che il vino c’è e l’impressione è che abbiano ben chiaro il marketing e i valori aziendali; devono ingranare e noi dobbiamo star loro dietro e supportarli”.

Quali le difficoltà fino a ora?
“Il percorso è iniziato con delle difficoltà burocratiche: etichette, dogane… Sono state inoltre segnalate delle caratteristiche dei nostri vini non perfettamente in linea con il gusto cinese (acidità e tannini alti); ma questi sono i vini italiani e dobbiamo educare all`accompagnamento con il cibo”.

Solitamente gli importatori cinesi vogliono controllare quasi completamente i propri affari, con poche interferenze del partner straniero. Immagino che a maggior ragione una realtà come Cofco non ammetta troppe intromissioni. Dove sentite o avete sentito la necessità d’imporvi e dove invece li lasciate più liberi?
“C’è sempre una certa resistenza alle regole, che soprattutto nel nostro caso sono molto strette; dobbiamo certamente proteggere il posizionamento in linea con le altre parti del mondo ma cerchiamo di ascoltare, nei limiti del ragionevole. Anche loro mi sembra ci stiano ascoltando. Sull’on-line e il commercio nei loro negozi, circa 200, li lasciamo per esempio abbastanza liberi, devono provare se vogliono. Volevamo poi supportare nella comunicazione ma preferiscono gestirla internamente. E` difficile imporre scelte senza conoscere il consumatore cinese”.

Con quali etichette avete iniziato?
“Tignanello, Villa Antinori, Brunello nei negozi e nella ristorazione. Santa Cristina soprattutto per l’e-commerce, su JD, Tmall e lo store che direttamente gestiscono. Gli altri seguiranno. Loro puntano soprattutto sul Tignanello, comprensibilmente in un paese dove devi sfondare; il contrario di quello che facciamo in Italia, dove spingiamo su Villa Antinori. Il vecchio importatore Links mantiene Hong Kong e gli alberghi. Per adesso abbiamo concordato una divisione per canali”.

Quali obiettivi vi siete dati e quali le aspettative?
“Non ci siamo dati numeri e fatturati precisi, abbiamo deciso di partire soltanto con alcune etichette, capire come va e tra un anno valutare. L’obiettivo è sviluppare il mercato cinese in maniera corretta, organica e sostenibile, con un buon posizionamento dei vini. Ci siamo dati tre anni prima di fare di nuovo il punto della situazione. Dipenderà tutto dall’impegno che ci metteranno e dalla misura in cui riusciranno a innamorarsi sia di noi sia dell’Italia, oltre dall’evoluzione che avrà lo sviluppo turistico e il nome Italia in Cina”.

Arriviamo dunque all’Italia. Quali secondo lei i problemi generali con la Cina?
“Sembra esserci difficile la risposta. I cileni e gli australiani ci hanno bruciato con tasse minori e accordi nazionali, muovendosi prima e più velocemente di noi. Certamente stentiamo tutti a decollare ma non ho capito se dipenda da una mancanza di brand a un prezzo ragionevole o da poca chiarezza di cosa sia l’Italia”.

E come andrebbero risolte queste mancanze?
“Far correre avanti le eccellenze riconosciute sarebbe un ottimo sistema ma non si può usare a livello istituzionale, è questo l`inghippo. Comunicare cosa è l’Italia e basta è di contro probabilmente troppo vago; sarebbe necessario sostenere un percorso educativo che introduca le varietà autoctone e le specificità come simboli di unicità e storia, e poi collegare un discorso regionale su tre grandi aree: nord, centro e sud. Lo stato non può scegliere alcuni, ma può aggregare e promuovere similitudini di qualità. Servirebbe un coordinamento non solo sul vino ma sul prodotto Italia in Cina. Però quanto si arriva all’operatività diventa tutto difficile, l’ho sperimentato adesso con il progetto dell’Ice negli Stati Uniti, c’è sempre qualcosa che alla fine blocca una programmazione efficiente. Ho proposto a New York – e sarebbe validissimo anche per la Cina – d’istituire un desk che rappresenti il vino italiano, con a capo una persona indipendente che abbia una qualifica riconosciuta ovunque, Master of Wine o Diploma Wset, un teacher. Potrebbe scegliere indipendentemente i vini da rappresentare; sarebbe facile, no? Ma solo pensare di nominare uno straniero e/o un autonomo è impossibile in Italia.

(winetimes.it)