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L'intervista

Costantino Charrère: “Sogno la cultura del vino”

15 Settembre 2016
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(Costantino Charrère con la moglie e le due figlie)

Un’intervista con Costantino Charrère è un’esperienza che tanti dovrebbero provare. Lui è il patron della cantina Les Crêtes che si trova a Aymavilles in Valle d’Aosta. 

Toni gentili, mai una parola fuori posto, parole pesate, una dopo l’altra. Lo becchiamo al telefono mentre è in vigna e scruta il cielo: “Qui non piove da due mesi”. E sembra quasi un’assurdità. Guarda l’uva: “L’acidità dei bianchi procede molto bene. Le uve rosse hanno delle maturazioni polifenoliche eccezionali”. Non si sbilancia è ovvio, e nemmeno glielo chiediamo noi cosa si aspetta da questa annata 2016. “Una stagione alla fine molto regolare dal punto di vista climatico”, precisa Charrere. Parlare di vino con Charrère è farsi una cultura. A 360 gradi. Lui ha un concetto diverso dagli uomini che vogliono fare solo profitti dalle loro cantine. “Intanto vorrei che il vino fosse visto come un alimento – dice – Ma serve una ricostruzione culturale. Sono convinto che ce la faremo”. Ricostruzione culturale, la definisce, che deve partire necessariamente da un’abile comunicazione: “Bisognerebbe spiegare che fare vino non è solo un momento di produzione economica, ma anche e soprattutto dinamiche che abbracciano il turismo e la cultura”.

Charrère, infatti, fa una sorta di me culpa: “Noi siamo i custodi del territorio – dice – ma il problema è che qui siamo un po’ tutti a compartimenti stagni, cioè ragioniamo un po’ ognuno per i fatti nostri. Ci guardiamo il nostro orticello, o meglio la nostra vigna. Non è il momento. Guardate in Francia, per esempio, ci sono decine di visioni diverse, espressioni diverse, eppure tutto appare come un sistema coeso”. Ma non è tutto: “Mi preoccupa il fatto che stiamo perdendo l’abitudine a bere vino, c’è una parabola discendente preoccupante – spiega Charrėre – Il consumo annuo pro capite degli italiani è di 35 litri, come la Svezia, un paese che non viene di certo ricordato per tradizione enoica. Ecco bisogna farsi qualche domanda”. Il primo passo per Charrère è smetterla col dire che siamo bravi e che sappiamo fare vino, “perché presto il mercato estero sarà saturo e cominceranno i guai – spiega – Credo sia necessaria una campagna di comunicazione e sensibilizzazione al bere quotidiano del vino, con moderazione, perché fa bene e lo sappiamo tutti, scegliendo, poi, i nostri vini e di altissima qualità”.

Per Charrère il ribasso dei consumi interni non è da attribuire alla crisi economica: “Ma quando mai… – dice – La verità è che stiamo perdendo consapevolezza del mondo del vino, che è diventato troppo icona di un certo status symbol. La crisi non c’entra niente con la diminuzione dei consumi interni”. Charrère, infatti, punta il dito sui prezzi troppo alti di certi vini, “alcuni veramente inarrivabili. Di contro ci sono alcuni vini davvero svenduti, perché c’è una concorrenza spietata che ha deregolamentato l’intero settore. E non mi riferisco solo all’Italia. Anche all’estero. Faccio un esempio. Qui, in Valle d’Aosta, per esempio, per produrre un ettaro di uve occorrono 1.200 ore di lavoro. In Australia invece ne bastano 80. Chiaro che quel vino potrà essere venduto ad un prezzo completamente fuori mercato rispetto al nostro. Ma bisogna interrogarsi sulla qualità. E servono politiche di salvaguardia”.

Ecco perché Charrère ha un timore: “Il fatto che finiremo tutti ad acquistare vino a basso costo, magari non italiano – conclude – Occorre, invece, una presa di coscienza, ma soprattutto di noi addetti ai lavori, che dobbiamo smetterla di pensare solo all’estero, e puntare anche al nostro Paese con un progetto culturale importante. Credo che sia venuto il momento di ammainare le bandiere ideologiche e fare politiche comuni”.

Giorgio Vaiana