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L'intervista

“C’è solo una strada per conquistare quote in India e nei mercati emergenti”

12 Giugno 2013
velati velati

“La chiave di volta per l’estero può essere creare un marchio a cappello che raggruppi un certo numero di cantine che le identifichi per regione o per vitigno o per qualcos’altro che possa caratterizzare la loro offerta”.

Lo sostiene chi ogni giorno studia piani di internazionalizzazione per le piccole e medie imprese. Andrea Velati, senior expert for marketing and international business development, è specializzato in progetti di sviluppo per il mercato indiano, lavora in Gianesin Canepari & Partners, compagnia di consulenza strategica con focus su estero e con sede ad Asolo.

Velati non vede molte altre alternative attualmente per le cantine italiane. Con lui abbiamo affrontato un’analisi sulle problematiche del sistema Italia e sulle prospettive che possono esserci fuori confine e in quello che è considerato lo sbocco del futuro per il vino tra i più importanti dopo la Cina, l’India. Mercato cresciuto negli ultimi tre anni del 22% e che nel complesso ha attirato investimenti stranieri per circa 80 miliardi di dollari.
 
In merito all’ internazionalizzazione cosa sconta l’Italia?
“Il fatto di essere un sistema non competitivo. Sconta una politica che purtroppo è indietro di 50 anni. Credo che oggi oramai abbiamo perso tutti i treni della globalizzazione. Non ci si è resi conto che un sistema che vuole essere competitivo e aperto nel mercato globale deve intervenire per essere tale, facendo delle scelte che si avvicinino alla cultura d’impresa. Ci vorrebbe una riforma su più fronti. L’economia fino ad ora è stata in mano ad aziende pubbliche e municipalizzate, non esposte alla concorrenza e hanno gravato sui cittadini e le stesse imprese con enormi costi”.
 
Guardando alla Francia che nei mercati strategici, come la Cina, detiene grandi quote di mercato come dovrebbe muoversi il nostro Paese?
“Ma parliamo di un modello lontano dal nostro. La Francia è una potenza coloniale abituata a fare marketing da 200 anni. Per loro l’internazionalizzazione è cominciata molto prima. Relativamente al nostro caso, noi a quell’epoca eravamo produttori, anzi nasciamo come produttori, la Francia è sempre stata abituata invece a ragionare in termini di marchio e di distribuzione nell’ottica della globalizzazione, tanto che lo Stato supporta tantissimo i marchi di eccellenza francese dal punto di vista politico che di promozione”.

Eppure sono tante adesso le iniziative volte al sostegno del Made in Italy all’estero e supportate anche dallo stato
“Non credo in fondo che effettivamente ci saranno dei provvedimenti che vanno verso la soluzione dei problemi. Vedo piuttosto che si tende a fare azioni, tattiche di marketing politico, ma la politica non è realmente impegnata a prendere, come si suol dire, il toro per le corna. Le riforme andavano fatte 20 anni fa. E’ sempre più difficile adesso ricorrere ai ripari. La piccola e media impresa italiana è stata lasciata da sola al suo destino in tutto questo tempo, esposta alla concorrenza e ora con la situazione attuale di crisi economica i problemi che deve affrontare si sono accentuati”.

Allora alle Pmi cosa rimane da fare?
“C’è una unica strada obbligata. Intanto valutare le opportunità di sviluppo, raggiungere l’eccellenza nel prodotto, e prepararsi alla grande sfida seguendo le best practice delle multinazionali. Loro hanno il prodotto, le pmi hanno, invece, come punto di forza gli artigiani, un know how meraviglioso che però stiamo perdendo. Poi, bisogna approcciare i mercati esteri in modo professionale, con un’analisi profonda di marketing e fare promozione. Comiciare a pensare ad un’associazione di produttori che agisca secondo una logica di promozione sul territorio in modo però coordinato e sinergico. All’atto pratico è quello che stiamo proponendo alle aziende che seguiamo o che ci interpellano. In questo momento proprio stiamo aggregando un certo numero di produttori per fare uno studio di marketing che riguardi più aziende e più tipologie di vitigni, vorremmo riunirli sotto uno stesso marchio che, pur preservando l’individualità di ciascuna, rappresenti il meglio di una regione, o di un vitigno o di un qualcosa che caratterizzi il nostro patrimonio, e che aiuti a comunicarlo. Lì dove non c’è cultura, bisogna crearla”.
 
Lei studia il mercato indiano che possibilità ci sono lì per le cantine italiane?
“Le possibilità ci sono, si deve agire lì con un piano chiaro di posizionamento e di distribuzione, e ripeto è necessario che i produttori uniscano le forze. In India la cultura del vino è ancora bassa. Ma c’è una congiuntura di fattori molto interessante. Da una parte i dazi che stanno diminuendo, prima erano arrivati oltre il 200%. Dall’altro lato il retail si sta liberalizzando, così oggi è possibile per grandi aziende, e soprattutto per grossi gruppi stranieri, investire nella grande distribuzione organizzata. Poi c’è il terzo fattore rappresentato dal crescere di una classe emergente che tocca già oggi 300 milioni di persone, che ha un reddito medio alto, e che ha un potere d’acquisto paragonabile a quello europeo. Si tratta di una classe giovane, impiegata nel settore dei servizi ad alto valore aggiunto. Di solito pensiamo all’India come ad un mercato di produzione a basso costo, in realtà, il 65% del Pil è formato da servizi a valore aggiunto come  informatica, ricerca. La media della popolazione in termini di età è molto bassa, 24 anni, e ha una educazione di alto livello. La maggior parte di questi giovani ha una formazione internazionale, i loro gusti si avvicinano a quelli appunto internazionali. Poi privilegiano e ricercano prodotti life style, che si tratti di moda piuttosto che di vino, che rimandano ai modelli occidentali e l’Italia è ben posizionata da questo punto di vista, vantiamo una reputazione che non abbiamo ancora speso al cento per cento. Della forza del nostro Made in Italy siamo stati capaci di usare solo il 20%”.

Il vino può entrare a far parte della loro dieta quotidiana o rimarrebbe solo prodotto a occasione?
“Gli indiani sono mediamente bevitori, almeno la parte non musulmana, che è prevalente, e consumano sui 400 milioni di confezioni di alcolici. Una parte di queste, circa 160 milioni, sono di birra. E proprio la birra è un fenomeno da prendere in considerazione, esploso in quest’ultimo periodo. La birra sì che è entrata nella dieta quotidiana. C’è stata una grossa comunicazione dl prodotto. La Germania e altri Paesi hanno fatto grossi investimenti sulla promozione. L’Italia deve guardare a questi esempi”.

Manuela Laiacona