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Al ristorante Orti Villadorata di Noto c’è lo chef Matteo Carnaghi: vi racconto la mia cucina di “immediatezza”

08 Luglio 2025
Matteo Carnaghi Matteo Carnaghi

A Noto, immerso nella luce abbacinante di una Sicilia di campagna autentica, Matteo Carnaghi ha trovato la sua dimensione.

Al ristorante Orti del country house Villadorata, lo chef ha portato con sé l’esperienza rodata nelle brigate milanesi, ma anche il coraggio di abbandonarla. Lo abbiamo intervistato e ci ha parlato con naturalezza di una cucina che rifiuta ogni schema fisso, una cucina di immediatezza, come ama definirla lui stesso.

Quando Viviana Varese, con cui Carnaghi aveva condiviso anni da sous-chef, lo invita a seguirla in questa nuova avventura in Sicilia, per lui è un colpo di scena: abituato a Milano, dove bastava sollevare una cornetta per avere ogni ingrediente desiderato, Carnaghi si ritrova catapultato in un mondo capovolto. Qui, racconta, “non puoi chiedere un cavolfiore perché ti serve un cavolfiore. Qui devi conoscere il contadino, devi instaurare un rapporto vero, di fiducia”. All’inizio, lo ammette senza filtri, questa dimensione lo innervosiva. Poi, come una lampadina che si accende, arriva la comprensione: la Sicilia va ascoltata, capita, assecondando il suo ritmo.

Ed è proprio in questa tensione tra attesa e scoperta che nasce la nuova identità di Carnaghi. Dopo che Viviana Varese ha scelto altri progetti, è rimasto lui a guidare la cucina del ristorante divenendo executive chef, e trasformandola in un laboratorio dinamico e libero da dogmi. Al suo fianco, una brigata composta da sette persone in cucina, guidata dal sous-chef Terry Giuliano e dal pastry chef Alessandro Montanari. In sala, quattro persone coordinate dal sommelier Duel Ahmed, che cura una carta con circa trecento etichette tra Sicilia e grandi referenze internazionali, con percorsi di degustazione.

Un unico menù giornaliero, otto piatti che cambiano ogni giorno a seconda di ciò che la natura e i fornitori possono offrire. Nessuna regola predefinita, nessuna rigidità: il prodotto è sovrano, la sua disponibilità decide tutto.

“Non parto più dal piatto che voglio fare,” spiega Carnaghi. “Parto da quello che trovo. È l’ingrediente a suggerirmi la ricetta.” Il risultato è un fine dining senza le impalcature ingessate del fine dining. “Qui non si celebra il lusso per il lusso, si insegue piuttosto un istante di verità, che può nascere da una lattuga appena scottata sulla brace, irrorata di aceto, o da un tagliolino concentrato in un ristretto di zuppa di pesce ottenuto dagli scarti”.

La sua è una cucina viva, che respira con il territorio, raccontata attraverso fondi, riduzioni, estrazioni. Carnaghi la paragona a un lavoro sartoriale: pezzi di memoria, ricordi di piatti passati, intuizioni che si tagliano e si cuciono ogni giorno in nuove composizioni. Un approccio quasi estremo alla stagionalità, che complica la vita in cucina ma, ammette lui stesso, la rende infinitamente più stimolante.

“Mi stanco facilmente,” dice ridendo. “Sono volubile, cambio idea in un attimo. Ma questo è il motore che mi spinge a cercare sempre qualcosa di nuovo”. Il risultato è un continuo work in progress, un movimento perpetuo che contagia tutta la brigata e arriva diretto al cuore dei commensali.

Il ristorante Orti Villadorata conta circa 25-30 coperti, con un social table e alcuni posti d’onore davanti ai fornelli, per assistere allo spettacolo dell’azione. In questa dimensione raccolta, Carnaghi costruisce un racconto gastronomico fatto di immediatezza e di istinto, con una mano sempre in ascolto del prodotto. Non ci sono cotture lunghe, né sottovuoto: brace, estrazioni concentrate, cotture espresse. Il suo piatto simbolo? Forse quel risotto al fieno, reso sapido da un formaggio normanno tostato nell’infusione di fieno e bilanciato da una gelée di cedro e limone, intensa e acida, che alleggerisce e sorprende. Ma domani, chissà, potrebbe già essere cambiato. Perché questa è la filosofia di Carnaghi: un menu che vive e muore ogni giorno, che non imprigiona mai né il cuoco né l’ospite. Una cucina che vuole emozionare con la semplicità, capace di far innamorare di una cipolla come di un pesce freschissimo, di far sentire chi arriva agli Orti libero, a casa.

E la stella Michelin? Carnaghi non la insegue: “Se arriverà, sarà una bella soddisfazione. Ma non cucino per quello. Cucino per la nostra felicità e far star bene le persone”. Mentre la cucina italiana sembra oscillare tra rinnovamento e conservazione, Carnaghi traccia con coraggio la sua rotta personale. Propone una cucina di immediatezza, per dirla con le sue parole. E per molti, questa potrebbe essere la vera nuova frontiera del fine dining.

La degustazione

L’esperienza inizia con un piccolo sandwich di gelato al pecorino siciliano, accompagnato da pera candita per una nota dolce e aromatica. A seguire, una tartare di carne servita con chips croccanti, erbe fresche e grano integrale per conferire consistenza e freschezza. Completa l’entrée una crème brûlée al cavolfiore, caramellata come una classica crème brûlée con zucchero, un tocco di sale e una spruzzata di lime per bilanciare con una piacevole nota acida.

Il viaggio prosegue con un cubo di tonno, marinato delicatamente con agrumi e kiwi, a evocare freschezza e acidità: piatto di grande equilibrio. Alla base, una vellutata zuppa fredda di peperoni verdi, raccolti acerbi per garantire un gusto più vivace e leggermente pungente, poi addolciti dall’aggiunta di pomodoro giallo. La nota aromatica è affidata a basilico e menta, mentre un tocco di nero di seppia completa la composizione, richiamando nel colore la buccia del kiwi e donando un rimando visivo sorprendente. Un piatto che gioca con i contrasti cromatici e gustativi, mantenendo una linea elegante e contemporanea.

Poi arriva la lattuga passata alla brace per conferirle una nota affumicata elegante e inattesa. Alla base, un’insalata “liquida”, preparata emulsionando lattuga condita come una classica insalata — olio extravergine, sale, aceto — che diventa così un sorprendente accompagnamento dal sapore familiare ma dalla consistenza innovativa. A completare, una crema di avocado dell’Etna, arricchita con pistacchio, regala una morbidezza avvolgente e una nota di lusso vegetale che ben dialoga con la freschezza della lattuga.

Ancora, il tagliolino di grano Timilia viene immerso in una zuppa di pesce concentrata, autentica essenza marina, accompagnato da lamelle di seppia cruda condite con lime, sale e capperi, per una spinta sapida e fresca.

Un filetto di ombrina cotto alla brace, che sprigiona sentori affumicati eleganti e delicati, si appoggia su una base di topinambur anch’esso leggermente arrostito, a richiamare note terrose e dolci. Il piatto viene completato con una crema di topinambur arricchita da senape, per esaltarne la complessità aromatica e regalare una leggera acidità. A nappare il tutto, un fondo di pesce intenso e concentrato, capace di unire armoniosamente gli elementi del piatto e valorizzare al meglio la succosità dell’ombrina. Un piatto che gioca sul bilanciamento tra terra e mare, affumicature e freschezza, in un equilibrio di grande personalità.

Non manca un secondo di carne di straordinaria immediatezza: manzo con variazioni di rapa, dove la rapa viene trasformata in millefoglie, estratti, marinature, sfoglie arrostite e acidificate, per un piatto che esalta l’idea di rispetto totale dell’ingrediente e di cucina circolare.

Il pre-dessert, firmato dal pastry chef Alessandro Montanari, è un omaggio ai profumi mediterranei: mandorla in consistenza morbida, limone vivo e fragrante, gelato di ricotta e limone per freschezza e delicatezza, completato da una meringa croccante e un filo d’olio a crudo. Un dolce elegante e territoriale. Si chiude con sfoglia, cioccolato bianco e ciliegia. Un dessert che sorprende innanzitutto per la costruzione in orizzontale, un gesto quasi architettonico che abbandona la classica stratificazione verticale per distendersi lungo il piatto, come un paesaggio dolce da esplorare con lo sguardo e il palato. La sfoglia, sottilissima e perfettamente friabile, funge da elemento strutturale ma anche da vettore di croccantezza, in contrasto con la cremosità vellutata del cioccolato bianco che la accompagna. La ciliegia aggiunge la nota acidula e fruttata necessaria a riequilibrare la dolcezza rotonda del cioccolato bianco, riportando il gusto verso una dimensione più vibrante e dinamica.