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Il caso

Caso Brachetto d’Aqui e PIT, interviene la Fivi

05 Settembre 2014
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Da sinistra Matilde Poggi, Gianluca Morino e Saverio Petrilli

All'inizio di una vendemmia non proprio tranquilla, carica di ansie e preoccupazioni data l'inclemenza del clima, arriva un'ulteriore ondata di scossoni a destabilizzare l'umore e il sonno dei piccoli produttori. 

Nelle due regioni icona dell'enologia nazionale le acque, da giorni, sono più che agitate. In Piemonte, nel territorio del Brachetto d'Aqui, il Consorzio ha preso una decisione che potrebbe mettere a repentaglio il lavoro dei vignaioli, il valore del loro lavoro e dei loro prodotti. In Toscana è esploso, invece, il caso Pit, Piano di Indirizzo Territoriale, linee guida (consultabili a questo link) approvate dalla Regione Toscana per mettere un freno alla viticoltura a favore dei pascoli, dei boschi e delle altre attività agricole. 

Il mondo del vino, soprattutto quello che mette nel mercato poche migliaia di bottiglie, è in subbuglio. La Fivi, sempre in prima linea nel difendere i produttori, lancia una nota di denuncia. Punta il dito contro il nuovo accordo proposto dal Consorzio del Brachetto d'Aqui (che gode dell'erga omnes). Una serie di provvedimenti che, sintentizzando per punti, andrebbero: ad abbassare la resa dai 55 ai 30 quitali per ettaro, ad aumentare l'esubero destinato a mosto parzialmente fermentato; a erodere il valore della produzione ad ettaro di un'ulteriore quota destinata a compensare la svalutazione delle bottiglie delle annate precedenti rimaste invendute e stoccate  nelle cantine delle grandi cooperative della zona:  a pagare un chilo di uva 1 euro, praticamente abbassando il reddito del contadino a poco più di 5 mila euro, dieci in meno rispetto alla soglia minima di sopravvienza. “Il Consorzio non dovrebbe fare tutela? Queste sono notizie che lasciano davvero senza parole – tuona Matilde Poggi, presidente della Federazione – Il Consorzio non dovrebbe prendere le parti di un solo attore della filiera e prendere decisioni a discapito degli altri”.

Infatti, il caso Brachetto d'Aqui, che vede messa a repentaglio la storia, la tradizione  e l'identità di un territorio, si fonderebbe proprio sul business che sta attorno al mosto parzialmente fermentato. Partita nella quale ci sono in ballo realtà dal peso specifico molto diverso, da un lato i vignaioli e i piccoli produttori, molti dei quali vivono quasi esclusivamente del reddito dato dal Brachetto, e si contano sulle dita di una mano, dall'altro le cantine sociali e i colossi che esportano il Moscato d'Asti e spumanti in tutto il mondo. Gianluca Morino, uno dei protagonisti più attivi dell'areale, che fa parte della Fivi e da anni fuori dal Consorzio, sullo scenario da cui è emersa la proposta, ci dice: “Siamo dinnanzi ad una prospettiva che vede il mosto parzialmente fermentato  generare più reddito rispetto al vino Docg. All'industria interessa la quota aromatica, il mosto parzialmente fermentato, il prodotto che le consente di fare quelle bottiglie che poi in tutti i supermercati escono a 2 euro e 20. Ricordiamo che il presidente del Consorzio è presidente di due cantine sociali dove sono detenuti, tra l'altro, questi mosti. Il Brachetto non interessa più a nessuno, non lo vuole nessuno. E pensare, che il contadino qui un tempo prendeva ad ettaro più di un produttore di Barolo. Il Consorzio sta mettendo paletti che finiranno per tagliare le gambe a tanti vignaioli e alle piccole e medie imprese. Diminuendo ancora la resa per ettaro, da un anno all'altro, si porta il piccolo produttore a perdere la competitività. E da dove li devono prendere i soldi per investire? Nella nostra collina al di sotto di una certa soglia di reddito non ci si guadagna più. Qui si rischia l'abbandono della terra. Da anni assistiamo, poi, all'abbassamento della qualità di questo vino. E vogliamo considerare la detrazione che va a compensare la svalutazione dei mosti nel magazzino? Quello che le cantine sociali non sono riuscite a vendere? Siamo in mano agli industriali, ed ecco cosa succede. Tutt'altra storia rispetto alle Langhe, dove invece ha prevalso la volontà degli agricoltori”. Un futuro nero, ciò che rimane all'orizzonte, ci prospetta Morino con tono avvilito.  

Nel territorio di Lucca, un altro produttore Saverio Petrilli di Tenuta di Valgiano, segretario nazionale della Fivi, si fa portavoce del dissenso della Fivi sul Piano di Indirizzo Territoriale, che vorrebbe di fatto limitare nuovi impianti di vigna e riconvertire superfici vitate ad altre colture o ai pascoli, per arginare il diffondersi della monocoltura. In una nota diramata la Federzione aveva  ribadito come non fosse facile comprendere la direzione di questa politica territorialie: “La Toscana “sia sempre stata una regione virtuosa nel rispetto del proprio  territorio e ambiente – ha scritto -. Arrivata ai giorni nostri con un paesaggio fra i più  ammirati e incontaminati, sia dal punto di vista ambientale che  architettonico anche se negli ultimi vent'anni tanti vigneti siano stati  “razionalizzati” e “modernizzati”  grazie al sostegno dato dalla  Regione.  Una razionalizzazione che ha diminuito il fascino di qualche area mentre quasi tutte le vigne continuano ad avere boschi e  oliveti come confinanti”.

Petrilli commenta e specifica che: “Il problema è tutto nell'applicazione cieca delle leggi e anche dei regolamenti, che hanno sicuramente contribuito alla sparizione di pascoli e di molte attività agricole. Si prendano come esempio le sovvenzioni date per la produzione del biodisel. E guardando alla pastorizia, oggi non è certo aiutata dalla legge se alla fine risulta fallimentare e si finisce di pagare più di quanto di guadagna. I casi di viticoltura esagerata ci sono stati ma sono eccezionali, non sono così tanti. Non possiamo pagare tutti per gli errori di poche persone. Ci sono vignaioli virtuosi e anche Comuni che hanno rispettato sempre il territorio. Se  sussistono delle criticità devono essere affrontate nello specifico. Non vedo assolutamente la necessità di un intervento così radicale come quello prospettato dal Piano. Basta sedersi ad un tavolo e parlare per vedere come tutelare davvero l'intero territorio e il paesaggio”. Il dialogo sul piano comunque è aperto, fa sapere la Regione, che ha dato come deadline il 29 settembre.