Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'intervista

Buttafuoco, la piccola Doc che vuole sfondare: “Facciamo come i Barolo Boys”

10 Novembre 2020

di Francesca Landolina

“La Doc Buttafuoco? Oggi sta bene ed inizia ad avere un po’ di notorietà, ma bisogna impegnarsi di più sulla riconoscibilità. Il Buttafuoco è un vino di lungo invecchiamento, molto strutturato, alcolico, tannico, preciso. Va fatto bene e non possiamo permetterci una rusticità negativa”.

A parlare è il vignaiolo e produttore Andrea Picchioni in merito alla piccola e storica Doc Buttafuoco del territorio dell’Oltrepò Pavese, in provincia di Pavia, una piccola denominazione che conquista sempre di più i palati di appassionati ed esperti. Il Buttafuoco è un vino rosso importante frutto dell’assemblaggio di alcuni vitigni storici, Barbera, Croatina, Uva rara e Ughetta (Vespolina), coltivati su versanti ben esposti e spesso molto ripidi in un territorio di sette comuni: Canneto Pavese, Castana, Montescano, Cigognola, Pietra de’ Giorgi, Broni e Stradella. Un vino e una Doc legati al territorio, non ai vitigni. “Questo ci rende orgogliosi, abbiamo una lunga storia alle spalle e un legame con il territorio particolarmente forte e identitario – afferma Picchioni – La Doc cammina sulle sue gambe e il Buttafuoco non è legato al vitigno ma alla zona di 7 comuni dentro l’Oltrepò pavese. Per questa ragione, insieme al Sangue di Giuda, può fregiarsi della denominazione senza che in etichetta si menzioni l’Oltrepò pavese”.

Oggi la Doc si estende per circa 300 ettari vitati e per una produzione di nicchia che raggiunge circa 370 mila bottiglie. Cinquanta circa sono i vignaioli produttori di uva, ma appena 25 le aziende che imbottigliano e commercializzano. L’Associazione produttori Buttafuoco Storico raggruppa circa 15 associati e si pone l’obiettivo di fare riscoprire la Doc valorizzandola. Come? Alle nostre domande ha risposto Andrea Picchioni nel corso della nostra intervista.

Qual è l’idea di vino secondo Picchioni?
“Ormai il vino non è più un alimento, c’è un aspetto edonistico da considerare che varia in base al quotidiano. Se ho trascorso una giornata stressante, di sera mi apro un vino fresco d’annata, mentre per una cena conviviale stappo una bottiglia di vecchia annata. Un vino deve dare piacere e lo deve dare anche alle generazioni future. Questo significa avere il massimo rispetto per la natura, e non irrigare. L’acqua oltretutto è un bene troppo prezioso”.

Torniamo alla Doc Buttafuoco…
“Sta bene, nasce negli anni ’70, rinasce negli anni ’90 e oggi ha un minimo di notorietà. In passato il Buttafuoco veniva fatto avendo come riferimento un disciplinare troppo vario ma finalmente ci si sta spostando verso un Buttafuoco fermo e di lungo invecchiamento”.

Cosa significa la vicinanza dell’Oltrepò Pavese per la Doc?
“Assolutamente nulla. Il Buttafuoco insieme al Sangue di Giuda possono fregiarsi della denominazione senza mettere la dicitura Oltrepò pavese in etichetta”.

Perché il buttafuoco è un vino identitario?
“Per il fatto che nasce da un blend di uve e in una zona ben precisa, in cui si incrociano tre comuni, Stradella, Broni e Canneto Pavese. La cosa curiosa è che in questo luogo nascono il Barbacarlo, il Buttafuoco e il Sangue di Giuda. Si tratta di una zona particolare con fortissime pendenze, su un terreno ricco di sabbia e sassi, nel punto più a nord dell’Appennino. Se ne ricava una mineralità particolare”.

Esiste un punto di debolezza?
“La debolezza è in noi produttori, siamo contadini e non imprenditori. Le idee a volte sono poco chiare, anche se le bottiglie si vendono. Personalmente vendo per il 60 per cento all’estero. Il vino è ancora poco conosciuto perché non riusciamo a comunicarlo bene”.

Oggi c’è riconoscibilità nel calice?
“No. Secondo me determinate caratteristiche si ritrovano 10 volte su 50. Siamo penalizzati dalle scelte tecniche. Siamo un po’ indietro. Il Buttafuoco deve essere un vino di lungo invecchiamento, molto strutturato, alcolico, tannico, preciso. Fatto bene, senza puzze di riduzione. Nel 2021 mi auguro che su cento vini se ne trovino perfetti centodieci. Dobbiamo permetterci la rusticità, ma non quella negativa”.

Qual è il valore medio oggi?
“Il mio Buttafuoco Riserva costa 24 euro franco cantina, mentre il fresco d’annata che non fa legno costa 9 euro. Ma la forbice dei prezzi è ampia. A gennaio abbiamo assistito ad un mezzo scandalo, quando abbiamo trovato un Buttafuoco al supermercato a 1,90 euro. I vini freschi d’annata al pubblico mediamente sono venduti a 5 o 7 euro. Le riserve hanno un prezzo franco cantina tra i 15 e i 25 euro. La differenza nei prezzi c’è ovunque, il problema è riuscire a fare passare il messaggio di un vino che ha l’ambizione di diventare un vino importante. Può invecchiare e occorre investore e farlo conoscere”.

Cosa occorre fare per promuoverlo?
“Siamo tutti medio-piccole aziende, bisogna avere la costanza di farlo bene e come nelle Langhe, dove fino agli anni ‘70 il vino era una sorta di soprammobile ma qualcosa è cambiato. Sono stati bravi e lo hanno reso famoso. Un gruppo di pochi ha fatto da traino riuscendo a far parlare di quel vino e di quel territorio”.

Si riferisce ai Barolo Boys?
“Sì, un piccolo gruppo di produttori che faccia bene, ad altissimi livelli”.