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La degustazione

Fiano di Avellino. Il racconto di due interpretazioni e quattro annate

23 Maggio 2012
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di Fabio Cimmino 

Siamo di fronte, secondo il sottoscritto, ovviamente, ad uno dei migliori bianchi prodotti in Italia.

L’ho sempre pensato ma ogni tanto sono alla ricerca di conferme. E la conferma è puntualmente arrivata da una mini degustazione di alcune vecchie annate scelte tra quelle che, alla loro uscita ed in riassaggi successivi, più mi erano piaciute o mi avevano impressionato. Non sono le più vecchie prodotte ma di quelle che è ancora possibile incrociare alla carta dei vini di qualche illuminato ristoratore che ne ha fatto scorta e cantina.

Personalmente ho la fortuna di bere ancora rare meravigliose bottiglie sia della 1997, annata d’esordio, che della 2002 ma di entrambe oltre alla difficilissima reperibilità esiste anche un rischio di conservazione che ne rende molto (troppo) variabile il contenuto.

Le 2004 stappate erano due, sì perché non so quanti lo sanno, ma del millesimo in oggetto Antoine ne ha prodotte due versioni. Una etichettata come Vigna della Congregazione, l’altra come semplice Fiano d’Avellino Docg. La volontà di fare una selezione nella selezione ha guidato Antoine nella sua scelta estrema. Non ricordo bene ma lui stesso mi accennò qualcosa in merito all’utilizzo, sperimentale, di lieviti indigeni (o misti) su questa produzione di ricaduta, e sarebbe interessante averne riscontro dal diretto interessato.

Indipendentemente da questo particolare tecnico, comunque non da poco (se così fosse si potrebbe stare a scrivere fiumi di parole, tante e tali sono le implicazioni che comporterebbe un argomento di così scottante attualità), quello che ho potuto riscontrare nel bicchiere con puntuale evidenza è, sicuramente, la diversità tra i due vini. Se però pensate che la mia preferenza di gusto e valutativa sia andata alla selezione devo deludervi perché il secondo vino (come direbbero in Francia) ha mostrato una dinamicità ed una tensione per nulla inferiore. Anzi un fascino ed una capacità di coinvolgemento a tratti, addirittura, superiori.

Ho assaggiato i vini per quattro giorni di fila, tornando ogni volta su ogni singolo millesimo e dedicando il giusto, meritato tempo alla straordinaria materia che con i suoi riflessi verde-oro illuminava i calici e sconvolgeva i sensi. Al 4° giorno ho provato a stilare una sintesi delle sensazioni regalatemi da ciascun vino traducendole in arrembanti note di degustazione.

Fiano di Avellino Docg 2004: il primo giorno è stato anche quello più difficile e controverso per approcciarmi a questo vino. Risultava irrimediabilmente scomposto. Un puzzle a cui mancava qualche pezzo. Le sollecitazioni olfattive per quanto scontrose offrivano, però, una seppur rarefatta possibilità di redenzione nel loro cangevole stimolante divenire.
Al palato emergeva, a supporto di quest’improbabile tesi, una migliore lettura. La struttura, alcolica ed acida, di tutto rispetto, ritrovava inaspettato equilibrio e, soprattutto, assicurava la piacevolezza nella beva. Nei giorni successivi un lento processo di assestamento ha rimesso insieme le tessere del mosaico spezzato ritrovando anche quelle ritenute andate perse. Tutto il quadro d’insieme si è ricomposto, anche al naso, permettendo di raggiungere quella coerenza finale in grado di facilitarne il pieno apprezzamento. La personalità originale rimane il suo tratto distintivo.
4 stelle

Vigna della Congregazione 2004: chi ama i vini di Villa Diamante non troverà difficoltà a riconoscerne in questo vino lo stile classico, d’impostazione francofona (del resto ricordiamo i trascorsi in Belgio di Antoine e la sua dichiarata passione per i bianchi d’Oltralpe), giusto compendio di ricchezza ed opulenza, da un lato, e succosa corpulenza dall’altro con il sostegno immancabile e necessario di un sapido quanto lunghissimo finale. Il naso è di estrema pulizia e di grande intensità. Zafferano, crema pasticciera,agrume candito, nocciola, spezie dolci, echi iodati, s’impongono fin dal primo bicchiere e manterranno le loro salde posizioni anche nei giorni successivi. In questo senso non si può non apprezzare l’assoluta assenza di una qualsiasi avvisaglia di cedimento. L’unico limite, per me, è proprio in quest’esecuzione così precisa e lineare, priva di tentennamenti o sbavature ma apparentemente costruita e distaccata. Perdonatemi l’ossimoro: di un calore freddo. Mancando il coinvolgimento, si amplifica il rimpianto dell’emozione solo appena sfiorata.
4 stelle

Vigna della Congregazione 2005: che si tratti di un’annata minore lo dice il produttore, lo dicono gli addetti ai lavori e lo dice il bicchiere. Ma bisogna intendersi sul “minore”. Gli indizi che ci vengono offerti dal liquido odoroso sono quelli di un vino selvaggio (come il “base” 2004 anche il 2005 lascia intuire scenari da lieviti indigeni), ribelle, che non si rassegna alle bizze climatiche del millesimo, piuttosto finge d’assecondarle insistendo, comunque, ad essere se stesso. Una magistrale interpetazione di una vendemmia senza acuti. Penso ad un cantante che certe note sa che non le prenderà mai ma che piuttosto che provare a cantare su un registro che non è il suo o di adattare la canzone al suo decide di stravolgerne l’interpretazione a modo suo ottenendo un risultato ugualmente all’altezza. Ecco dunque un 2005 sottile nei profumi non, però, meno precisi nè banali. Conserva il timbro fianesco di Montefredane suonato, semmai, solo con minore intensità senza rinunciare alla sua forza evocativa. Coerente e scorrevole nello sviluppo. Che della diluizione al palato fa la sua arma vincente. Questo bianco lo bevi e basta, senza troppe elucubrazioni mentali. Mirabile quanto imprevedibile tenuta a bottiglia aperta così come alla prova del tempo.
3 stelle e 1/2

Vigna della Congregazione 2006: secondo alcuni il capolavoro di Villa Diamante. La quadratura del cerchio. Il vino secondo Antoine Gaita. In questo vino c’è tutto, di tutto e di più. L’altezzoso snobbismo di un Grand Cru borgognone, l’eleganza raffinata di  un bianco della Loira, l’esuberanza minerale di un riesling alsaziano. Ma poi ti accorgi che è, invece, più semplicemente, la quintessenza del Fiano avellinese e del terroir di una contrada nascosta sotto il versante scosceso di un piccolo paesino dell’Irpinia. L’austerità che pervade le sensazioni di frutta esotica e nocciola fresca, di fiori gialli e castagna affumicata, non lascia tregua olfattiva, neanche un attimo. Se fosse un quadro penserei alla pittura neoclassica del ‘700 di Jacques-Louis David o del suo allievo Jean-Auguste-Dominique Ingres. La sua integrità e la sua carica espressiva ancora oggi, a 6 anni di distanza, spaventano ma non stupiscono. Dilemma: bianco ancora giovane ed in divenire o statica esibizione di una bellezza compiaciuta e fine a se stessa? Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Mi piace pensare ad un lottatore dell’antica Grecia che si è appena liberato dell’incompiutezza giovanile ma è ancora lontano dallla maturità della vecchiaia. Il corpo è un fascio di nervi, scattante, pronto ad esplodere ma allo stesso tempo compatto e granitico pronto a ricevere e sopportare i colpi dell’avversario. In alcuni momenti ti sembra quasi di vederlo impegnato in questa nobile disciplina: immagini sfocate, flash improvvisi che ne catturano lo sguardo fiero e spietato. Eccolo muoversi alla ricerca del momento opportuno per provare una presa ed andare all’attacco oppure inarcare la schiena con un deciso colpo di reni quando è lui ad essere sotto. In un gesto ora di attesa ora di minaccia, pronto a sferrare improvviso la sua mossa. Qui c’è n’è per tutti i gusti, difficile rimanere delusi.
5 stelle