Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
La degustazione

Georgia on my mind

14 Giugno 2012
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di Massimiliano Montes 

L’incontro con Nicola Finotto di “I am wine” è stato veramente galeotto.

Conosciuto a Cerea, in occasione di ViniVeri 2012, è stato un valido cicerone nel mondo dei vini della Georgia. In quell’occasione mi stupì con un autoctono georgiano, il Rkatsiteli del monastero di Alaverdi, un “amber wine” vinificato in anfora. In seguito mi ha suggerito tre altri vini: un Tsitska-Tsolikouri, bianco prodotto da Nikoladzeebis Marani, un altro Rkatsiteli di Kakheti (piccola regione orientale della Georgia) prodotto da Pheasant’s Tears, ed un Saperavi, altro vitigno autoctono rosso di Kakheti sempre prodotto da Pheasant’s Tears.

Sono consapevole della quasi impronunciabilità dei nomi di questi vini e me ne scuso anticipatamente, ma sono così buoni da meritare un piccolo sforzo linguistico. Se poi non vi interessa proprio nulla di saper pronunciare il loro nome (e potrei condividere questa posizione), chiudete gli occhi e beveteli lo stesso: non ve ne pentirete. Noi li abbiamo assaggiati per voi una domenica a pranzo ospiti di un grande amante del buon bere, Giovanni Tarantino del Ristorante “Arrhais” a Porticello, borgata del comune di Santa Flavia, a pochi chilometri da Palermo. Accompagnati da un menù completo a base di pesce crudo e cotto, li abbiamo dapprima degustati con il dovuto rigore tecnico e professionale; quindi, dopo aver ben adempiuto ai nostri doveri, ci siamo scolati  tutte le bottiglie. 
 
Il territorio.
Secondo Mark Berkowitz dell’Archaeological Institute of America, la Georgia è il più antico produttore di vino al mondo. I ritrovamenti di piccole anfore contenenti vino nelle regioni caucasiche risalgono al 7.000 a.C. in pieno neolitico. Da quella regione, in epoche successive, la fermentazione alcolica della bacca di Vitis Vinifera si è diffusa verso il medio-oriente e l’Egitto, e da lì in Europa ed in tutto il mondo.

Per buona pace dei francesi e degli italiani il vino nasce sul Caucaso. Le cinque principali regioni produttrici di vino in Georgia sono il Kakheti, il Kartli, l’Imereti, la Racha-Lechkhumi e la Kvemo Svaneti,  l’Ajara. La più importante è sicuramente il Kakheti, suddivisa in Telavi e Kvareli, seguita  dall’Imereti.
I vini georgiani prendono il nome della regione e del villaggio di provenienza, un po’ come in Borgogna, ed indicano sempre in etichetta il vitigno e spesso il vigneto. Considerati nei secoli come  l’eccellenza della produzione vinicola mondiale, sono stati il fiore all’occhiello delle gerarchie sovietiche durante il recente passato. Hanno subito un periodo sfortunato a causa della campagna anti-alcool promossa da Gorbaciov, che ha imposto l’estirpazione coatta di ettari di antichi vigneti. Dal 2006 a causa dell’embargo instaurato dalla Russia di Putin hanno incrementato il volume di vendite all’estero, in particolar modo verso l’Europa e gli Stati Uniti.

I vini da noi degustati sono prodotti da Pheasant’s Tears e da Nikoladzeebis Marani. La prima è una società creata da John H Wurdeman, un pittore americano trasferitosi definitivamente in Georgia nel 1998, e da Gela Patalishvili, produttore georgiano di Sighnaghi. Nikoladzeebis Marani è invece un piccolo viticultore che produce 700 bottiglie da 0,7 ettari nella regione di Nakhshirgele, Imereti. 

I vini georgiani sono tradizionalmente fermentati in grandi anfore sotterrate e coperte. Le bucce dell’uva, anche bianca, vengono lasciate a macerare nel mosto-vino per periodi variabili da 30 giorni a sei mesi. Non vengono utilizzate tecniche di cantina invasive ed i georgiani non sanno neppure cosa siano quei prodotti enotecnici, dalle nostre parti largamente usati, capaci di snaturare il profilo aromatico originale del mosto-vino. 

I vini in degustazione
Il primo vino degustato è forse il più lieve, perdonatemi questa definizione, dei tre: il Tsitska-Tsolikouri 2010 di Nikoladzeebis Marani.
Giallo paglierino scarico, con un naso sottile ma penetrante che suggerisce immediatamente aromi affumicati e di fiori di pitosforo, seguiti da note di zagara. La roteazione del calice fa emergere una timida florealità di campo. La bocca è di buona acidità, elegante, con retrogusto agrumato e lievemente sapido che lascia il ricordo di un delicato fumé. Si fa bere con trasporto e facilità: nonostante la complessità aromatica riesce ad essere leggero e brioso.
L’impressione complessiva è quella di un ottimo vino che suscita un piacevole stupore. Per i nostri canoni è infatti inusuale percepire in un vino bianco questi tratti aromatici: una florealità che a me ricorda i “fiori di pitosforo” di una meravigliosa siepe ad altezza d’uomo, ma che ognuno definirà secondo le proprie esperienze aromatiche; e queste note affumicate che ricordano un legno verde e resinoso appena riposto dentro un camino acceso, o gli aghi di pino che bruciano lentamente su un fuoco che cova coperto, sprigionando un sottile fumo bianco aromatico.  
La bevibilità è fluida e copiosa.
 
Il secondo vino degustato è veramente un campione. Un grande vino che lascia il segno ed un chiaro ricordo nella memoria: il Rkatsiteli 2010 di Pheasant’s Tears. Le bucce di questo autoctono bianco della regione di Kakheti vengono lasciate a macerare nel mosto-vino, in grandi anfore interrate, per sei mesi. Il risultato è un vino del colore dell’ambra, unico e particolare già dall’aspetto visivo. Questo è un bianco che piacerà agli amanti dei vini rossi: ed infatti noi lo abbiamo decantato come un rosso. Accostando il calice al naso senza roteare, per percepire correttamente gli aromi di apertura, veniamo letteralmente inondati da intensi profumi di albicocca matura e di crostata d’albicocca.


Rkatsiteli 2010 di Pheasant’s Tears

La reazione immediata è quella di allontanare il calice per controllare nuovamente cosa stiamo bevendo, quindi di nuovo in immersione tra effluvi di albicocca seguiti da chiari aromi di arancia amara, o meglio della scorza dell’arancia amara (che a noi Siciliani ricorda un po’ l’arancia candita del cannolo). La roteazione lascia emergere piacevoli sentori di camomilla, timo, lievi erbe officinali, note affumicate questa volta meno percepibili, più timide.
Al palato stupiscono i tannini stile vino rosso: lievemente astringenti ma setosi e raffinati. Il Rkatsiteli ha un acino dalla buccia spessa e mediamente ricca di polifenoli (i tannini), che vengono estratti dalla lunga macerazione e richiedono un affinamento del vino simile a quello dei rossi. L’acidità è contenuta ed equilibrata. Le sensazioni complessive in bocca sono ampie e coinvolgenti, ti accompagnano durante il sorso, ampliano l’immagine gustativa.
La retrolfazione suggerisce ricordi di mandorla amara, e poi orchidea e lilium, e di nuovo albicocca.

Assolutamente inutile parlare di persistenza per questo vino: qualsiasi definizione sarebbe riduttiva. La persistenza aromatica è infinita, si può misurare in minuti. Viene lentamente e progressivamente sostituita da un ricordo aromatico netto, intenso, piacevole.   
 
Ultimo vino degustato, il Saperavi 2008 di Pheasant’s Tears. Dal colore rosso rubino intenso, tendente al violetto, si presenta con un naso selvatico, che richiama gli odori del sottobosco, il muschio, la terra bagnata. Soltanto roteando il calice emergono sentori di ciliegia e prugna fresca, seguiti da ribes nero e confettura. Al palato è ampio, con un’acidità straripante e tannini astringenti ma non eccessivi. La retrolfazione ci dona un ritorno imperioso al frutto, specialmente ciliegia e confettura, seguito da tenui note agrumate e profumi di agrifoglio e violetta. 
 
Una notazione conclusiva sui vini bevuti. Tutti hanno una gradazione alcolica tra il 12° ed i 12,5°. Questa è la dimostrazione che per ottenere vini di incredibile ampiezza aromatica, profondità, struttura e corpo, non c’è alcuna necessità di utilizzare in cantina tecniche alchemiche risorgimentali come il Mosto Concentrato (MC) ed il Mosto Concentrato Rettificato (MCR), abbondantemente sfruttati dalle nostre aziende per aumentare il tenore alcolico del vino. E’ sufficiente saper fare del buon vino. Con metodi assolutamente naturali.
 
Il distributore italiano: “I am wine”
Nome apparentemente egocentrico e pretenzioso: “Io sono il vino” o meglio “questo è vino”. Ovviamente una sottolineatura riferita alla natura dei vini selezionati per la vendita, e non al carattere dei proprietari di questa piccola azienda di distribuzione, persone tanto appassionate quanto umili e modeste. Michele e Nicola Finotto, zio e nipote con soli due anni di differenza, fondano “I am wine” il 2 marzo dello scorso anno, con l’intenzione di vendere solo vini naturali ed artigianali e di far conoscere i produttori mediante piccoli documentari in presa diretta, crudi, improvvisati e mai studiati precedentemente. Attualmente hanno in listino diciotto produttori naturali, sia italiani che stranieri.
 

I am wine
di Michele e Nicola Finotto
https://www.iamwine.it/
info@iamwine.it